1. LA PRIMA TOP MODEL TRANS LEA, NATA COME LEANDRO A BELO HORIZONTE (BRASILE)

Categoria: Ambiente

 TRENT’ANNI FA, FIGLIO DEL CALCIATORE TONINHO CEREZO, RACCONTA L’OPERAZIONE A BANGKOK –

2- DAL MENU’ DELLE VAGINE (PER SCEGLIERE BENE) ALLO STRUGGENTE ADDIO AL CAZZO - 3- E' L’8 MARZO, LA FESTA DELLA DONNA. CHE IRONIA, EH? LA SERA PRIMA MI GUARDO ALLO SPECCHIO E SALUTO IL MIO PENE, LO RINGRAZIO PER I TRENT’ANNI PASSATI INSIEME. LA MATTINA, MI PORTANO VERSO LA SALA OPERATORIA. MI ASPETTA UN LETTO A FORMA DI CROCE” - 3- “HO IMPARATO A MASTURBARMI. HO AVUTO UN ORGASMO. ED E' STATO SODDISFACENTE COME QUELLI CHE AVEVO CON IL MIO PENE. L’AMORE ERA DIFFICILE DA TRANS” -

Paola Jacobbi per Vanity Fair, Dahospia 21.8.2016

Ho conosciuto Lea nel 2010. Stava diventando un «caso»: la prima top model trans. Nata come Leandro a Belo Horizonte (Brasile) trent'anni fa, figlio del calciatore brasiliano Toninho Cerezo, mi raccontò che aveva cominciato le terapie in vista dell'intervento chirurgico per diventare donna a tutti gli effetti. Mi promise che, quando sarebbe successo, mi avrebbe dato una seconda intervista.

Poiché, da quel nostro primo incontro, Lea è diventata una star della moda che è andata persino da Oprah Winfrey e ha baciato Kate Moss sulla copertina di Love, pensavo se ne sarebbe dimenticata. Invece ha mantenuto la parola. Ecco il suo racconto. Le mie domande le ho tolte, non credo ne sentirete la mancanza.

«Ti avverto. Il racconto è un po' punk. L'operazione non è uno scherzo. E c'è da piangere, ma anche da ridere. Da dove comincio? Sì, comincio da mia madre, quella che mi ha messo al mondo maschio. Fino all'ultimo ha cercato di dissuadermi, ma per me era arrivato il momento. Oltre alle cure ormonali, mi ero fatta il seno e altre due piccole operazioni per femminilizzare i lineamenti del viso: ho limato fronte e mento.

Sono arrivata a Bangkok, mi sono messa in albergo e ho cominciato a visitare le cliniche di cui mi avevano parlato altre trans. In Thailandia l'operazione per cambiare sesso è una specie di attrattiva turistica. Le cliniche sono tutte rosa a fiorellini, hai presente quello stile che in Giappone chiamano Kawai, quella roba tipo Hello Kitty? Ecco, così. L'operazione costa meno che altrove, è la Disneyland dei trans. Se sei uomo puoi diventare donna o viceversa per 15 mila euro. Mi hanno messo in mano dei menu, con il listino prezzi e i diversi servizi offerti. Tre o quattro tipi di vagina, con variazioni e optional per ogni intervento.

«Il mio corpo era pronto, forse la testa non molto: in albergo, da sola, ho avuto degli attacchi di panico, non sapevo che fare. Poi mi sono detta: o adesso o mai più. Mia madre e mia zia mi hanno raggiunto e siamo andate in clinica. Nei giorni precedenti all'intervento, alcune ragazze operate mi incoraggiavano, dicendomi che è "una cosa tranquilla, vedrai, ti svegli con la vagina e tutto sarà più facile". Un'altra, invece, ci ha chiamate tutte nella sua stanza e, in lacrime, ci ha detto di non farlo, che si soffre come animali e non ne vale la pena.

«Tra mille dubbi, arriva il momento. È l'8 marzo, la festa della donna. Che ironia, eh? Su consiglio di un'amica già operata, la sera prima compio questo strano rito: mi guardo allo specchio e saluto il mio pene, lo ringrazio per i trent'anni passati insieme. La mattina, su una sedia a rotelle, mi portano verso la sala operatoria. Penso che è una nuova nascita, ma anche che quello è il corridoio della morte. Mi passano davanti le immagini della mia infanzia e giovinezza, quando ero solo Leandro, e poi questi miei faticosi, tormentati anni da trans. Penso che è tutto finito, ma che non so che cosa mi aspetta.

«Mi aspetta un letto a forma di croce. Mi legano le braccia, mi sento imprigionata, mi viene da piangere, all'improvviso sono Leandro a cinque anni, un bambino che ha paura di tutto. Comincio a piangere finché l'anestesia non si impadronisce delle mie vene e dei miei pensieri.

«Mi sveglio dopo quattro ore, mia madre è accanto a me, con la Bibbia in mano. Prega. Hai presente quella storia che dicono che, se uno squalo ti azzanna una gamba, all'inizio non senti dolore? Io non sentivo dolore, ma come se mi avessero toccata lì con qualcosa di strano, alieno. Il pene è come se ce lo avessi ancora ma chissà dove, come se fosse spostato e schiacciato da una mutandina troppo stretta.

Al secondo giorno, i dottori ti costringono a guardare lì, con uno specchio. Orribile, da film dell'orrore. Poi iniziano le complicazioni: una necrosi, un'allergia agli antibiotici, dolore e morfina, morfina e dolore. Quando disinfettavo la ferita con i cotton fioc, urlavo. Tutte le mattine, dalle 9 alle 11, mi davano un dilatatore da spingere dentro a forza, una specie di stupro autopraticato.

«Sono rimasta a Bangkok oltre due mesi. Pian piano mi riprendevo, e qui comincia anche la parte in cui si ride un po'. Durante la convalescenza, io e le due brasiliane che erano state operate nei miei stessi giorni, ed erano diventate mie amiche, passavamo un mucchio di tempo insieme. Quando ero arrivata mi guardavano sconvolte perché sapevano chi sono, mi trattavano come si trattano le celebrità. Poi siamo entrate in confidenza e, senza di loro, sarebbe stato tutto più difficile.

Ogni tanto ci facevano uscire per camminare un po', andare a mangiare in una specie di ristorante vicino. Ci vergognavamo da morire perché sapevamo di essere ridicole. Con dei gonnelloni fino ai piedi, la ciambella sempre al braccio perché mica ti puoi sedere normalmente. Camminavamo a gambe larghe come tre pinguini. Però insieme ci facevamo forza e riuscivamo a sopportare anche il caldo e l'umidità infernale.

«Mia madre e mia zia sono sempre state con me. E anche loro due, benché religiosissime e certo non abituate all'ambiente, alla fine ridevano. C'erano certe storie assurde. Per esempio, un signore giapponese che girava in gonnellina rosa e sandaletti da Barbie ma con le gambe tutte pelose. Aveva detto alla moglie che andava in vacanza. Sarebbe tornato a casa femmina.

«A furia di guardare lui, a guardare certe altre donnine giapponesi che erano lì a farsi mettere dei peni enormi, a guardare questa umanità confusa, convinta che la ricetta della felicità stia in quello che hai in mezzo alle gambe, ho cominciato a pensare che il mondo perfetto non è quello dove tutti hanno diritto a farsi operare per diventare uomo o donna. Il mondo perfetto sarebbe quello in cui, davvero, chi ha un disturbo d'identità come l'ho avuto io possa vivere serenamente, senza essere condizionato da questo manicheismo maschi o femmine, femmine o maschi perché, alla fine, se ci pensi, tutta questa ossessione per i genitali è limitata e superficiale. Gli esseri umani sono molto di più di un pene o una vagina.

«No, non mi sono pentita di essermi operata. Dovevo fare questo viaggio doloroso per arrivare alla consapevolezza che io sono sempre io, che Leandro e Lea sono la stessa cosa.

«Molte trans si operano perché pensano che solo così saranno apprezzate dagli uomini, vogliono essere il più donna possibile: riuscire a ingannare un uomo è, per loro, una prova di femminilità suprema e di potere. Ma è una sciocchezza: bisogna imparare a convivere con il proprio corpo. Tanto, puoi sembrare donna quanto vuoi: quello che si è messo con te perché sembri proprio una donna ti sbatterà in faccia il tuo passato al primo litigio.

«Sono passati sette mesi, ormai. Sto bene, anche se sono ancora un po' debole. Però ho ricominciato a lavorare, ho sfilato a Milano e a Parigi. E ho anche ricominciato ad avere una vita sessuale, sì. Ho imparato a masturbarmi. Mi ha spiegato come fare passo dopo passo una mia amica al telefono, dal Brasile. Una specie di lezione di autoerotismo femminile. Sì, ho avuto un orgasmo. Ed è stato soddisfacente come quelli che avevo con il mio pene. Però la penetrazione, quella, ancora no. Sto aspettando l'uomo giusto, che mi rispetti. Che mi ami? Parole grosse. L'amore era difficile da trans, è difficile anche adesso perché, quando si parla di questioni di cuore, il corpo non c'entra proprio niente.

«Ah, certo, vuoi sapere di mio padre? Non ci siamo ancora visti da quando mi sono operata, ma ci incontreremo presto. Per lui, come per tutta la mia famiglia, rendere pubblica questa storia è stato difficile. Ma lui mi vuole bene, è dalla mia parte, che io mi chiami Leandro o Lea».

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