Quella bufala chiamata Burian che alimenta il vittimismo di noi lettori-elettori

Categoria: Ambiente

E’ un vento qualunque, sinonimo di un vento forte, impetuoso, che nella sua versione invernale di solito soffia a temperature molto basse. La confusione semantica, il mito siberiano e le altre fake news

di Anna Zafesova 27 Febbraio 2018 alle 16: www.foglio.it

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Milano. E ora, non bastassero tutti gli altri guai, è arrivato il Burian. Ma prima di prepararci a congelare nelle case coperte di neve, una buona notizia: non esiste. Il terribile vento siberiano di cui parlano giornali e meteorologi semplicemente non risulta all’appello, non se ne trova traccia nei dizionari e nelle enciclopedie. Che parlano di “buran” (come scrivono più correttamente alcune testate), che in russo non vuole dire altro che “bufera”, “tempesta” di neve, ma anche di sabbia d’estate. Quindi non un vento con un nome proprio, come lo scirocco o il meltemi, relegato a specifiche zone e stagioni, né un uragano che viaggia per migliaia di chilometri, battezzato dai meteorologi con un nome esotico. E’ un vento qualunque, non il Buran, ma solo un buran, senza maiuscola. Basta che sia forte, da spazzare via le persone e alzare accecanti turbini di neve, insomma, fischia il vento e urla la bufera, e non è un caso che l’apparizione all'orizzonte del “buran” nella famosa scena di “La figlia del capitano” di Pushkin viene tradotta nelle edizioni classiche in italiano con il grido del vetturino: “E’ un guaio, c’è la bufera!”.

Una bufera qualunque, dunque, una parola antica che viene dalle steppe asiatiche, ed è stata portata alle nostre latitudini dalle genti turcofone che hanno farcito della loro lingua le parlate dei popoli conquistati, e il “buran” è probabilmente parente abbastanza stretto della bora triestina, della buriana nostrana e della burja (tempesta) delle lingue slave, anche se alcuni linguisti contrappongono un’origine latina (“boreas”). Nell’ex Unione Sovietica il termine (non il vento) è più diffuso nelle zone delle steppe, in Kazakhstan (quindi tecnicamente fuori dalla Siberia), nel sud della Russia, in Ucraina e in Crimea, che si trova più o meno alla stessa latitudine della Liguria. E’ sinonimo di un vento forte, impetuoso, che nella sua versione invernale di solito soffia a temperature molto basse, non intorno allo zero della prima (e nel caso dell’Italia, anche ultima) nevicata della stagione, ed è un fenomeno intenso ma passeggero, che si estingue nel giro di qualche ora, ben prima di raggiungere il Mediterraneo.

Se non possiamo prendere il treno, andare a scuola o usare l’auto, non è colpa di un mitologico vento siberiano, ma di chi non ha pulito le strade e sparso il sale. La confusione semantico-meteorologica sul Burian però è sintomatica. Tutte le nozioni linguistiche e geografiche sul termine “buran” sono reperibili banalmente su Wikipedia, in italiano, senza bisogno di avere conoscenze specifiche. Ma tutti preferiscono credere al Burian. Forse perché l’aggettivo “siberiano” è sempre sinonimo di qualcosa di terribile ed esotico, e blasonate case editrici italiane pubblicano romanzi sull’educazione “siberiana” di un tatuatore della Transdnistria, e all’Esselunga si vendono i (divertentissimi) cosmetici “siberiani”, inventati da un geniale moscovita che li produce in Estonia con ingredienti e macchinari rigorosamente italiani. Forse perché la Russia resta sempre quella terra remota sulla quale scatenare la fantasia: dieci anni fa gli italiani avevano paura che Putin avrebbe chiuso il gas (probabilmente in preda a pulsioni suicide), quattro anni fa i cronisti facevano reportage da “piazza Maidan” (che in ucraino vuole dire appunto “piazza”, ma il nome si era perso per strada), due anni fa si sognava (non solo in Italia) un’alleanza con Mosca in Siria, salvo accorgersi ora che i russi a Damasco stanno combattendo non insieme, ma contro gli occidentali. O forse perché il Burian provoca un sottile brivido di paura, da aggiungere o sostituire agli altri spaventi che arrivano ogni giorno, dalla mafia nigeriana al femminicidio, dal debito pubblico all’olio di palma, un’altra minaccia più grande di noi, che ci fa sentire vittime impotenti.

Le previsioni del tempo del mitico colonnello Bernacca erano altisonanti e incomprensibili, piene di termini tecnici, ma in qualche modo rassicuranti: non avrebbe mai definito tre giorni di pioggia “emergenza maltempo”. E in un mondo di “stangate”, “emergenze” e “allarmi” continui diventa difficile poi lamentarsi che i lettori-elettori non credono alle buone notizie, e che – come dimostrato dai sondaggi pre Brexit – si vota non sui fatti, ma sulle percezioni, e gli inglesi erano convinti che gli immigrati fossero un terzo della popolazione (invece dell’8,6 per cento, come anche in Italia). E’ difficile chiedere agli italiani di non credere alle fake news quando sono fatte da altri, e convincerli a farsi spaventare dal Burian, ma poi di non avere paura delle scie chimiche o dei vaccini.

Commenti

28 Febbraio 2018 - 09:09

Il problema è uno solo: le informazioni sulle previsioni del tempo non vanno seguite sulla tv, dove impera l'enfasi perenne. Poi tra Burian e compagnia cantando dobbiamo ricordarci che siamo in inverno. Quello che è scandaloso è che poi quando arrivano la neve e il ghiaccio le città sono paralizzate e i trasporti ferroviari bloccati, con i grandi manager a capo che annunciano investimenti di 100 milioni per le linee ferroviarie del Centrosud. Come al solito, prima arrivano le disfunzioni e poi si scopre l'acqua calda.

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Rispondiguido.valota

27 Febbraio 2018 - 18:06

Più che perfetto. Comunque, per il triste medio riflessivo: tranquillo, tra tre giorni potrai ricominciare a frignare di global warming provocato dall'uomo come fai regolarmente dopo tre giorni di 'caldo africano'.