A lunga conservazione I survivalisti che si preparano alla fine del mondo sono sempre di più (e c’entra la crisi climatica)

Categoria: Ambiente

l’instabilità geopolitica e l’emergenza ambientale di questi tempi ha prodotto una generale sfiducia che spinge a cercare una soluzione per sopravvivere alla fine del mondo
Francesco Del Vecchio linkiesta.it lettura4’

I cosiddetti preppers esistono da decenni, ma l’instabilità geopolitica e l’emergenza ambientale di questi tempi ha prodotto una generale sfiducia che spinge molte più persone a cercare una soluzione per sopravvivere alla fine del mondo

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C’è chi pensa, con buone ragioni, che lo scontro in una gabbia tra Elon Musk e Mark Zuckerberg possa essere uno dei punti più bassi raggiunti dalla civiltà umana. Ma in fin dei conti questi sono i più ottimisti. C’è chi si prepara a scenari ancora peggiori, c’è chi si prepara al disastro totale dell’umanità. Oltreoceano li chiamano preppers, che noi potremmo tradurre come “survivalisti”.

Questo gruppo sociale, apparentemente ossessionato dalla preparazione a un eventuale disastro, sta crescendo settimana dopo settimana a causa dell’aggravarsi dell’emergenza climatica in tutto il mondo e del complessivo scetticismo che molti hanno nei confronti della lotta per salvare il clima. L’aspetto più interessante del tema che sembra pervadere i cittadini dei Paesi industrializzati, oltre a una generale angoscia, è la divisione interna nella comunità dei preppers: anche tra chi si prepara al crollo, la divisione tra più ricchi e meno ricchi è evidente. Da questa contrapposizione sono nati due modelli diversi di gestione della crisi, una cosa da fare quasi invidia agli scritti di Antonio Gramsci.

Il survivalismo in salsa miliardaria è infatti totalmente diverso dall’approccio dei comuni cittadini: Elon Musk e i suoi pari possono permettersi di programmare nel dettaglio la loro resistenza e addirittura considerare la fuga nello spazio come un’opzione tutto sommato realistica, come se fossimo in un film di fantascienza. Lo stesso Musk, che da sempre ha puntato i riflettori su Marte e sulle sue lande rosse, ha dichiarato che tra le ipotesi ci sarebbe quella di sganciare un ordigno nucleare sul pianeta per innalzare la temperatura, renderlo abitabile e poi colonizzarlo (poi però non lamentiamoci quando anche su Marte servirà l’aria condizionata).

Business Insider ha invece raccontato la storia dei bunker di lusso in cui i super ricchi intendono salvarsi: aziende come Vivos e Rising S offrono rifugi ultraccessoriati, con servizi come piscine e scuderie, come andare in un resort. Vivos vende location in tutto il mondo, con appartamenti sotterranei costruiti in strutture e silos missilistici della Guerra Fredda riconvertiti. I siti funzionano come complessi in cui gli individui possono riunirsi in aree comuni, oltre a mantenere il proprio spazio privato. Anche la chiacchierata con il vicino di casa, insomma.

L’offerta di bunker ha registrato un’impennata di interesse all’inizio della pandemia e durante l’attacco della Russia in Ucraina. Online, i prezzi delle strutture Vivos partono da trentacinquemila dollari a persona, con “sconti significativi” disponibili per le persone che possiedono competenze chiave a livello di sopravvivenza. I prezzi di Rising S partono da quarantamila dollari, ma per mettere le mani sulla serie di lusso ci vogliono almeno 3,78 milioni; il rifugio più costoso vale circa quattordici milioni di dollari. A differenza di Vivos, Rising S costruisce i suoi bunker individualmente nelle proprietà esistenti dei clienti.

I preppers ultraricchi combinano paranoia e tecnologia, mania del controllo e lusso: il futurologo Douglas Rushkoff ha raccontato il suo incontro in pieno deserto con un gruppo che gli aveva chiesto una consulenza a riguardo. C’erano varie incognite sul tavolo, soprattutto per quanto riguarda la tenuta del dispositivo di sicurezza incaricato di proteggere il rifugio: in una situazione di totale caos, le guardie potrebbero tradire i loro padroni? I preppers si spingono a valutare qualsiasi possibilità.

La peculiarità del tema è la mania tutta americana di vendere qualsiasi tipo di servizio, di proporre pacchetti come se si trattasse dell’iscrizione a Netflix. La tendenza a trasformare tutto in un prodotto, anche la sopravvivenza a un eventuale attacco nucleare o a un disastro climatico, è ancora più evidente quando si tratta di vendere a persone che hanno una disponibilità di fondi stratosferica.

C’è poi la versione “comprata su Wish” dei preppers, ovvero tutti gli altri, quelli che di certo non possono permettersi un bunker a cinque stelle sotto la villa. Il survivalismo dei non ricchi si accontenta di un po’ di provviste, cibo liofilizzato e così via. Bloomberg ha riportato il successo di Augason Farms, fornitore di prodotti per la sopravvivenza che ha visto le sue vendite decollare, triplicando il fatturato annuale. Il menù è fatto di cibi a lunga conservazione, specialità prelibate come uova in polvere e burro di noci, stroganoff liofilizzati o, nel migliore dei casi, lasagne.

Il mercato della sopravvivenza continua a crescere, soprattutto negli Stati Uniti: l’attacco russo in Ucraina, l’aumento del costo del carburante, l’inflazione, la siccità e le ondate di calore sono solo alcuni degli eventi che in questi anni hanno stimolato il mondo dei preppers a fare scorte. Per soddisfare la crescente domanda, il fondatore Mark Augason ha semplificato la produzione, riducendo i prodotti disponibili, puntando solo sui best seller e tagliando decine di distributori per poter incanalare meglio le vendite.

I primi preppers sono emersi durante la Guerra Fredda, quando il timore di un disastro nucleare ha spinto alcune persone a darsi da fare per prepararsi alla sopravvivenza. Ma il movimento, pur persistendo nel corso dei decenni, è stato per lo più ignorato dalla società tradizionale, che ha visto li ha considerati soprattutto gente paranoica. Ora però questo settore marginale sta diventando sempre più mainstream, in particolare per proteggersi dai rischi dell’emergenza climatica.

Un recente rapporto prevede che l’industria del cibo di sopravvivenza, che oggi produce circa cinquecento milioni di dollari di vendite annuali, crescerà di 2,8 miliardi di dollari entro il 2026. L’incremento di questo settore la dice lunga sulla paura che si è insinuata nel comportamento dei consumatori tradizionali. Magari non costruendo un vero e proprio bunker, ma rifornendo le loro dispense di cibo a lunga conservazione nel caso in cui si verifichi un’altra grande tempesta, una bufera di neve, un incendio.

Ci sono dei buoni motivi (e molto preoccupanti) per aggiungere alla propria dispensa scorte alimentari a lunga conservazione. Ma perché non partire da un’evoluzione dell’agricoltura, da tecnologie di nuova generazione, oppure perché non cominciare a votare politici che prendano sul serio la crisi climatica? Il cibo liofilizzato sarà anche utile, ma nel frattempo forse sarebbe meglio concentrarsi su cosa fare per salvare la baracca.