QUELLA SÒLA DEL SUOLO

Categoria: Ambiente

Quanta fuffa nei numeri e nelle tesi degli indignati che denunciano l’inarrestabile
consumo di suolo in Italia. Il Parlamento, se li ascolta, compie un inutile errore

La commissione Ambiente della Camera
dei deputati sta lavorando all’approvazione
della tanto invocata legge sul contenimento
del cosiddetto “consumo di suolo”.
Si tratta del testo unificato che tiene
conto delle diverse proposte depositate in
materia, la cui ossatura fondamentale è costituita
dal disegno di legge presentato dal
governo, ai tempi dell’esecutivo Letta, con
Nunzia De Girolamo al ministero delle Politiche
agricole e Andrea Orlando a quello
dell’Ambiente.
Sono cambiati il capo del governo e i titolari
dei dicasteri coinvolti, ma non è
cambiata l’impostazione. E ora – magari
con il traino mediatico dell’Expo e dei mille
eventi che metteranno al centro la retorica
della difesa dell’agricoltura, del mangiare
biologico, delle reti corte e del Km
zero – la legge quadro potrebbe approdare
nell’Aula di Montecitorio, e avere una
fortuna diversa da quella, dal contenuto
analogo, presentata ai tempi del governo
Monti dal ministro (ex Direttore generale)
delle Politiche agricole Mario Catania.
Il testo del disegno di legge è il risultato
di un dibattito – ammesso che sia possibile
scomodare questa parola – nel quale
prevale l’opinione, diffusa negli editoriali
dei giornali e ripresa, senza eccezioni, nelle
dichiarazioni dei politici di tutti gli
schieramenti, in base alla quale la cosiddetta
“cementificazione” continua a divorare,
giorno dopo giorno, enormi quantità
di suolo non urbanizzato. Tale tendenza
non conoscerebbe flessioni, e proprio questo
continuo incremento – in corso e dunque
da fermare – delle superfici impermeabilizzate
sarebbe all’origine dei danni
che si registrano in corrispondenza di
ogni evento meteorologico particolarmente
acuto.
Questa opinione dominante si è affermata
anche grazie all’occultamento dei dati
statistici pubblicati dall’Istituto nazionale
di statistica che evidenziano come la
quantità di suolo impermeabilizzata dal
1980 in poi aumenta in modo sensibilmente
inferiore rispetto a quanto accadeva nei
decenni precedenti. Nella vulgata predominante
non sono meritevoli di alcuna segnalazione
neanche le tabelle contenenti
i dati relativi ai numeri delle abitazioni
esistenti e delle famiglie, che l’Istat, giustamente,
incrocia mostrando come, nonostante
la popolazione cresca meno del numero
delle abitazioni costruite, il numero
delle abitazioni sia inferiore al numero
dei nuclei famigliari che sono i soggetti
che domandano un’abitazione.
Mentre il professore Salvatore Settis e
altri illustri accademici, con cadenza periodica,
aprono le prime pagine dei giornali
con i numeri dei campi di calcio cementificati
ogni giorno, lo stesso Istituto
nazionale di statistica ci ha informato che
nel primo semestre del 2014 l’edilizia residenziale
presentava una contrazione rispetto
allo stesso periodo del 2013 (meno
11,4 per cento le abitazioni e meno 9,1 per
cento la superficie utile abitabile). Per l’edilizia
non residenziale, la situazione non
era diversa, visto che si registrava una diminuzione
del 10,8 per cento rispetto al
primo semestre del 2013. Tutto ciò ha determinato,
rispetto al primo trimestre del
2014, un calo annuo della produzione nelle
costruzioni che supera l’11 per cento. A
questi numeri, si aggiungono quelli ancora
più impietosi contenuti in un documento
della Banca d’Italia, lasciato alla Camera
in occasione di un’audizione sul cosiddetto
Sblocca Italia, che documenta come
tra il primo trimestre del 2008 e il secondo
del 2014 l’attività nelle costruzioni ha
cumulato una perdita prossima al 30 per
cento, contribuendo per 1,5 punti percentuali
al calo del pil. E tutto ciò fa sì che,
stando ai dati forniti dall’Associazione nazionale
costruttori (Ance), dal 2008 a oggi,
l’edilizia abbia registrato una perdita di
446 mila posti di lavoro e il fallimento di
di Marco Eramo
più di 11 mila imprese.
Ma questi dati non trovano lo stesso spazio
che sui giornali hanno trovato, specialmente
nell’ultimo biennio, gli articoli degli
editorialisti e degli accademici indignati,
come Settis che presenta come prove
del crimine – tale viene considerata una
pratica sociale ammessa dalla Costituzione
e dalle leggi come l’utilizzo del suolo –
le stime fatte dall’Ispra con l’utilizzo di
programmi che elaborano rappresentazioni
fotografiche del suolo, con una rete di rilevamento
che non copre in modo omogeneo
il nostro territorio, e le serie storiche
ricostruite attraverso basi di dati che non
possono essere omogenee (come si comparano
la qualità delle informazioni disponibili
sulla situazione attuale o degli ultimi
anni con quella dei primi decenni del secolo
scorso?). E nel fronte degli indignati si
registrano anche divergenze non proprio
irrilevanti. Il professore Alberto Ziparo
dell’Università di Firenze, in un editoriale
pubblicato sul quotidiano Repubblica lo
scorso novembre – a sostegno della necessità
di far decadere il decreto Sblocca Italia
– ha presentato i dati sul consumo di
suolo del collega dell’Università dell’Aquila,
Bernardino Romano, per il quale i chilometri
quadrati di suolo coperti non sarebbero,
come stimato dall’Ispra, poco meno
di 22 mila, ma oltre 70 mila.
Una volta descritto il contesto, è necessario
passare all’esame della norma in discussione,
ragionando a proposito di alcuni
dei principi enunciati nell’articolo 1, a
partire dall’ultimo comma, il 4, secondo il
quale “le politiche di sviluppo territoriale
nazionali e regionali favoriscono la destinazione
agricola e l’utilizzo di pratiche
agricole anche negli spazi liberi dalle aree
urbanizzate e perseguono la tutela e la valorizzazione
dell’attività agricola attraverso
la riduzione del consumo di suolo”.
Stando agli estensori della norma, in un
paese come l’Italia, l’obiettivo da perseguire
con le politiche di sviluppo, sia nazionali
sia regionali, sarebbe quello di favorire
la destinazione agricola del territorio italiano,
e di far sì che vengano coltivate anche
le parti libere, non costruite e impermeabilizzate,
delle aree urbanizzate.
Chiunque legga i documenti comunitari in
materia di spazio rurale sa bene che le
strategie riferite allo spazio rurale non si
fondano sulla tutela e la valorizzazione
dell’attività agricola, e dunque sulla salvaguardia
della vocazione produttiva (agricola)
di quelle aree, ma sulla cosiddetta multifunzionalità.
E dunque le politiche di sviluppo
non possono essere costruite – come
sostenuto nella legge – intorno a una rigida
partizione del territorio in due, da una
parte le aree urbanizzate e dall’altra quelle
libere da destinare alla produzione agricola.
E’ necessario adottare politiche finalizzate
a un uso integrato e sostenibile dello
spazio rurale e di quello urbanizzato
che, ormai, sono in buona parte sovrapposti,
e già integrati.
La rurbanisation – e dunque la progressiva
espansione dello spazio urbanizzato
che occupa con densità differenziate anche
lo spazio rurale – è un fenomeno europeo
e mondiale che va governato nel
tentativo di contenerne e gestirne le principali
criticità, e di valorizzarne gli aspetti
positivi. Demonizzarlo serve a poco, e
farlo, come tentano di fare gli estensori di
questa legge, opponendo una sorta di ruralizzazione
del territorio (non urbanizzato)
italiano, è una operazione ideologica,
destinata a essere ineffettiva, soprattutto
se implementata, come recita il comma 4
dell’articolo 1 richiamato sopra, soltanto
“attraverso la riduzione del consumo di
suolo”.
E’ noto che sono diversi i fattori all’origine
di una progressiva riduzione delle
aree che possono essere destinate, in modo
conveniente e sostenibile, a usi agricoli
e che, dunque, la tutela dell’attività agricola
in buona parte del territorio nazionale
non possa essere perseguita grazie a
una semplice azione interdittiva che impedisca
la trasformabilità delle aree agricole,
a meno di non associare a tutto ciò
una misura – questa sì insostenibile, da un
punto di vista economico e non solo – con
la quale socializzare una parte dei costi
da sostenere per conservare la destinazione
di aree agricole non utilizzabili come
tali in modo conveniente e duraturo. Su
questo aspetto, è utile segnalare come in
base ai dati forniti dall’Istat in Italia, disponibili
rispetto al periodo compreso tra
il 2004 e il 2010, il 4,6 per cento del territorio
agricolo ha cambiato destinazione,
ma solo un quarto è stato artificializzato, e
dunque urbanizzato. La parte restante
delle aree si è trasformata in area naturale
non coltivata. Il che significa che la perdita
di aree agricole è determinata dai
mutamenti tecnologici, dal generale aumento
di produttività dell’agricoltura, dall’apertura
dei mercati e dall’insostenibilità
economica di determinate colture, più
che dalla domanda di trasformazione connessa
al cosiddetto consumo di suolo. Di
fronte a ciò, la legge in discussione potrà
davvero poco.
Restando alle finalità della legge enunciate
nell’articolo 1, è opportuno leggere
anche il comma 2, in base al quale “fatte
salve le previsioni di maggior tutela delle
aree inedificate introdotte dalla legislazione
regionale, il consumo di suolo è consentito
esclusivamente nei casi in cui non esistono
alternative consistenti nel riuso delle
aree già urbanizzate e nella rigenerazione
delle stesse”.
Stando a quanto riportato sopra, la legge
in discussione dovrebbe individuare il
modo attraverso il quale verificare se un
bisogno e/o il perseguimento di un legittimo
interesse – perché è di questo che si
parla o almeno si dovrebbe parlare quando
si parla di trasformazione del territorio
– possano essere soddisfatti senza utilizzare
suolo non ancora urbanizzato. Il concetto
e la sfida sono chiari, le parole e le definizioni
scelte dal legislatore decisamente
meno. Basta soffermarsi sulla definizione
centrale del disegno di legge, quella di
consumo di suolo, che nel successivo articolo
2 viene definito come “incremento annuale
netto della superficie oggetto di impermeabilizzazione
del suolo nonché di interventi
di copertura artificiale non connessi
all’attività agricola”.
La definizione scelta, connessa al principio
menzionato all’inizio, rende subito
chiaro come la valutazione delle alternative
– che come tale dovrebbe consentire di
ponderare anche il costo economico e sociale,
destinato a protrarsi nel tempo, delle
diverse scelte insediative, e non solo i
metri quadrati di suolo impermeabilizzati
e/o coperti artificialmente – non venga fatta,
come sarebbe necessario, di volta in volta
o comunque rispetto a situazioni, esigenze
e ambiti territoriali definiti in modo pertinente.

Come discende dal combinato disposto
degli articoli 1 e 2, infatti, l’incremento annuale
netto della superficie impermeabilizzata,
presumibilmente con riferimento
all’intero territorio nazionale, è consentito
– non si sa ancora bene da chi e in che modo
– soltanto nei casi in cui non è possibile,
in alternativa, riusare e rigenerare aree
già urbanizzate. Ciò significa che la valutazione
di eventuali richieste di trasformazione
del territorio, che interessano aree
non edificate, non possa essere fatta – come
continua a essere previsto dal nostro ordinamento
– nel momento in cui vengono presentate,
e con riferimento all’ambito territoriale
di riferimento, ma deve essere fatta
tenendo conto della quantità di suolo
“netto” impermeabilizzata nell’anno precedente,
e della medesima quantità prevedibile
riferita all’anno in corso. E se la cosa
non fosse già sufficientemente infattibile,
bisogna di seguito accertare anche la disponibilità
– concretamente e non in astratto
– di aree urbanizzate da riusare e rigenerare.

Ammesso che tutto ciò abbia senso – e
senza trascurare il fatto che la sola esistenza
di aree urbanizzate potenzialmente riutilizzabili
non basta per dimostrare l’esistenza
di una alternativa concreta all’utilizzo
di suolo non ancora urbanizzato – ci si
aspetterebbe, negli articoli successivi, la
definizione e la descrizione di un meccanismo
che consenta di fare tutto ciò.
Ma nell’articolo 3 viene previsto altro:
un’articolata sequenza di atti con la quale
si arriva a definire – attraverso un decreto
del ministro delle Politiche agricole alimentari
e forestali, adottato di concerto
con quelli dell’Ambiente, dei Beni culturali
e delle Infrastrutture e dei Trasporti – la
riduzione progressiva, in termini quantitativi,
del consumo di suolo a livello nazionale,
valida con riferimento a un arco temporale
quinquennale. Per l’ampio arco parlamentare
che raccomanda l’approvazione di
questa legge, è sufficiente stabilire che, da
ora in poi, la quantità del suolo nazionale
impermeabilizzabile nel successivo quinquiennio
venga fissata per decreto. Non a
caso, una volta stabilito che la quantità nazionale
fissata verrà ripartita in quote regionali,
con una delibera della Conferenza
Unificata, il legislatore ritiene esaurito il
suo compito. E per quanto riguarda le fasi
successive – le più delicate e rilevanti – si
riscopre regionalista, e si limita a stabilire
che le regioni dispongono la riduzione del
consumo di suolo e determinano i criteri e
le modalità da rispettare nella pianificazione
urbanistica di livello comunale.
L’esigenza di riqualificare le relazioni tra
lo spazio urbanizzato e le aree libere, e di ricostituire
un rapporto più equilibrato, e sostenibile
nel tempo, tra le domande di trasformazione
e funzionalizzazione del territorio
e le matrici ambientali, è innegabile.
Per farlo, occorre, prima di tutto, prendere
atto che la parte più rilevante dei problemi
da affrontare dipende dall’eredità
lasciata dai processi di urbanizzazione sviluppatisi
durante la seconda metà del secolo
scorso, rispetto alla quale la legge in discussione
non fornisce strumenti adeguati
ed incisivi. In seconda battuta, occorrerebbe
dotarsi di strumenti (anche rafforzando
quelli esistenti, si pensi alle procedure di
Via e di Vas per esempio), con i quali accertare
in che misura le esigenze e i bisogni
connessi all’uso del suolo, e/o che implicano
il medesimo uso, possano essere soddisfatti,
impermabilizzando e coprendo artificialmente
ulteriori quote di suolo, e in
che misura possano essere soddisfatti attraverso
il riuso delle aree urbanizzate, valutando
alternative concretamente percorribili
in contraddittorio con i soggetti interessati
e con il pubblico.
Ma tutto ciò, nel disegno di legge, non è
previsto, sia perché si prediligono scorciatoie
autoritative e dirigiste – per costruire
e gestire processi valutativi efficienti e responsabili
bisognerebbe avere (e volere)
una Pubblica amministrazione adulta, e
possibilmente non sotto la custodia di Raffaele
Cantone e della Corte dei Conti – sia
perché si ritiene che le domande di trasformazione
del territorio siano venute meno
(quelle che si palesano sono, per definizione,
frutto della speculazione) ovvero vadano
azzerate, per il solo fatto che la popolazione
non cresce e che il modello economico
sta cambiando. Senza trascurare il fatto
che buona parte degli ispiratori/sostenitori
della legge parlano e scrivono di “sviluppo
locale autosostenibile” ma, in realtà,
pensano nostalgicamente a regimi autarchici,
all’interno dei quali si mangia quel
che viene prodotto nel territorio retrostante,
con buona pace della globalizzazione,
dell’apertura dei mercati e dei benefici
connessi.
Sarà anche per questa ragione che, una
volta approvata la legge in discussione, a tirare
le fila delle diverse azioni pubbliche e
private riferite al territorio italiano – riordinandole
gerarchicamente in nome dell’interesse
giudicato prevalente costituito
dalla tutela delle aree agricole – sarà il titolare
di un Ministero del quale, nel 1993,
gli italiani avevano chiesto e ottenuto la
soppressione con il voto referendario. Non
è il caso di pensarci bene e di scongiurare
che ciò venga stabilito?
Il testo discusso in commissione
Ambiente, tra retorica anti
speculativa, attacchi all’Expo e
cibo a Km zero
La terra impermeabilizzata, nel
nostro paese, aumenta molto più
lentamente già dal 1980. Il crollo
delle nuove costruzioni con la crisi
Il mondo non è New York City. Vista aerea di Manhattan e del suo Central Park
Quanta fuf