Quante bufale Doc sugli Ogm

Categoria: Ambiente

La "Xylella" creata nei laboratori americani per infettare gli ulivi pugliesi e sostituirli con quelli geneticamente modificati. E poi il pesce-fragola di Grillo, il frutto transgenico che rende calvi. Un bestiario del ridicolo

di Giordano Masini | 16 Aprile 2015 ore 13:11 Foglio

Un ragazzo cammina tra montagne di cotone geneticamente modificato a Dhrangadhra, India

Quello degli ulivi transgenici nascosti in qualche laboratorio israeliano, pronti a rimpiazzare di soppiatto gli ulivi pugliesi sterminati da un morbo creato a bella posta da Monsanto, l'ormai nota Xylella, non è certo la prima bufala sugli Organismi geneticamente modificati (Ogm), anche se senz’altro è una delle più ridicole. Ma non è solo la letteratura complottista a diffondere favole come quella di cui recentemente si è fatta portavoce Sabina Guzzanti. Autorevoli commentatori, giornali, trasmissioni televisive, politici di ogni schieramento e organismi istituzionali hanno fatto spesso da cassa di risonanza ai miti sugli Ogm, anche a quelli più sciocchi e demenziali.

Il primo, probabilmente il più celebre di tutti, è la fragola-pesce. Non è un caso se una delle più frequenti stilizzazioni grafiche usata dagli oppositori degli Ogm sia un pesce improbabilmente incrociato con una fragola. Tutto nacque quando alcuni ricercatori della Dna Plant Technology, ormai molti anni fa, tentarono di conferire a una varietà di pomodoro una maggiore resistenza al freddo e alle gelate, e per farlo presero a modello un gene contenuto nel Dna di un pesce artico. Un esperimento fallimentare che comunque ha alimentato la leggenda. Beppe Grillo, al solito, la toccò piano: “In quattro mesi sono morti 60 ragazzi di choc anafilattico perché erano allergici al pesce e mangiavano il pomodoro”. Bum! Di mutazione in mutazione, di frottola in frottola, il pomodoro si trasformò in fragola. In una memorabile puntata di Report del 1998, un sedicente esperto assicurò: “Si è prodotta, per esempio, una fragola che è stata resa resistente al gelo inserendo dei geni di pesci che vivevano in zone fredde. Questa fragola ha cominciato a produrre un prodotto secondario che era il glicoletilenico, il comune liquido antigelo dei radiatori. Quindi sono diventate immangiabili”. Poi fu il turno di Mario Capanna, l’ex capo dei katanga sessantottini ricicciato da qualche anno come leader di una fondazione di attivisti antibiotech: lui è andato addirittura in televisione, nella puntata di Uno Mattina del 30 luglio 2007, a dire che sì, la fragola all’antigelo esiste, e lui ne aveva addirittura mangiata una. Chissà cosa gli avranno fatto assaggiare.

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Se gli Ogm fanno diventare calvi, distruggono il sistema immunitario, provocano allergie, come potrebbero non essere anche cancerogeni? La leggenda secondo la quale gli Ogm provocano il cancro, benché diffusa da anni, ha trovato nuova linfa nel lavoro del ricercatore-attivista francese Gilles-Eric Seralini, che riuscì non molto tempo fa a farsi pubblicare da Food and Chemical Toxicolgy uno studio secondo il quale i topi nutriti con mais resistente al glifosato (un principio attivo presente in molti erbicidi) sviluppano tumori. Food and Chemical Toxicolgy ritirò presto lo studio, che aveva lacune metodologiche colossali, ma intanto la frittata era fatta. Troverete lo studio farlocco di Seralini citato ovunque, anche – sembra incredibile – nella mozione che la Camera dei Deputati  ha approvato all’unanimità il 10 luglio 2013,  che impegna il governo a bandire gli Ogm sul territorio nazionale: l’unico studio citato, una celebre bufala, a fronte dell’intera letteratura scientifica sull’argomento di segno contrario. La popolarità della bufala di Seralini e il fatto che avesse superato in un primo momento il vaglio di un'autorevole rivista scientifica ha contribuito ad alimentare un altro mito, quello per cui la scienza, sugli Ogm, sarebbe divisa. Mito molto popolare sui giornali e in televisione, dove vige la regola che a ogni parere se ne debba contrapporre per forza uno contrario, anche quando non ha la stessa dignità scientifica. Eppure sul fatto che gli Ogm non provochino danni alla salute o all’ambiente la comunità scientifica è pressoché unanime, e non potrebbe essere altrimenti, dal momento che non esistono evidenze che attestino il contrario.

Ma se gli scienziati sono favorevoli agli Ogm, o almeno non vedono controindicazioni al loro utilizzo, devono per forza essere al servizio delle multinazionali. Cosa in sé piuttosto ridicola: sarebbe come dire che nessuno scienziato sarebbe in grado di sfuggire al controllo di Monsanto, mentre tutti riescono a sfuggire facilmente a quello di Exxon e di Philip Morris, che peraltro spendono in lobbying molto più di quanto spendano le aziende che producono sementi. Avete mai sentito scienziati indifferenti all’uso dei combustibili fossili o convinti che fumare faccia bene? Eppure, ovunque vi giriate, sentirete qualcuno disposto a giurare che chi non è contrario agli Ogm è pagato da Monsanto. La stessa Vandana Shiva, che dell’attivismo antibiotech è probabilmente la bandiera più appariscente, non fa che ripeterlo ai quattro venti.

Vandana Shiva, in particolare, è una vera e propria fabbrica di bufale, a cominciare dalla più ignobile e ripugnante di tutte, quella che attribuirebbe alla diffusione in India del cotone Bt l’aumento di suicidi tra gli agricoltori. Centinaia di migliaia di contadini, ripete la Shiva e con lei la sua affollata corte dei miracoli, sono stati indotti negli anni passati al suicidio non potendo più pagare le pesanti royalties che Monsanto pretende per l’acquisto dei semi: ridotti in uno stato di semischiavitù dal colosso sementiero di St. Louis, avrebbero preferito farla finita. Non è vero. Gli agricoltori di tutto il mondo sono esposti alla volatilità dei prezzi, alla discontinuità dei raccolti, alle avversità climatiche, ed è necessario almeno un anno di lavoro e un nuovo raccolto per tentare di riprendersi da una situazione sfavorevole. Purtroppo nel mondo agricolo i suicidi sono più comuni che in altri settori produttivi, anche in Europa e negli Stati Uniti. Ma con i suicidi (purtroppo veri) degli agricoltori indiani gli Ogm non c’entrano nulla: infatti il cotone Bt è stato introdotto in India nei primi anni 2000, mentre l’aumento statisticamente rilevante dei suicidi risale alla metà del decennio precedente, e comincia a calare mentre le superfici coltivate a Ogm aumentano. E se il fatto, con ogni evidenza, non sussiste, non sussiste neanche il movente, dal momento che l’India non tutela la proprietà intellettuale delle sementi: il cotone prodotto da Monsanto può essere copiato, ed è infatti stato copiato, da chiunque, e i contadini non sono obbligati al pagamento di alcuna royalty.

La questione delle royalties e dei brevetti sui semi Ogm, più che una leggenda o una bufala, è il sintomo di quanto, in pochi decenni e in un paio di generazioni, abbiamo perso completamente il contatto con il mondo agricolo e con la dimensione del suo sviluppo e dei suoi cambiamenti. In ogni discussione sugli Ogm non manca mai quello che, con il ditino alzato, spiega come le multinazionali si approprino indebitamente della proprietà dei semi, obbligando gli agricoltori a ricomprarli ogni anno invece di riseminare una parte del loro raccolto. L’immancabile Report ha dedicato alla cosa un’intera paradossale puntata, l’11 novembre del 2013, e il leghista Luca Zaia, che sull’argomento usa da anni lo stesso linguaggio dei no-global, ne ha fatto un cavallo di battaglia, come tanti altri, da destra a sinistra, testimoni soprattutto del fatto che l’urbanizzazione di massa ha conservato, nella fantasia degli italiani, un’idea di agricoltura di sussistenza che non esiste più (fortunatamente) almeno dall’inizio degli anni sessanta. Nella realtà la proprietà intellettuale sul miglioramento genetico delle piante non nasce con gli Ogm – il primo brevetto di una pianta risale agli anni 30 – e anche senza Ogm gli agricoltori acquistano ogni anno nuove sementi, spesso brevettate, selezionate dalle stesse aziende che producono anche varietà transgeniche. Non c’è nulla di strano in questo, e le ragioni sono da una parte nei costi e nella ricerca necessaria per selezionare nuove varietà, costi e ricerca che vengono remunerati, come in qualunque altro settore produttivo, dalle leggi a tutela proprietà intellettuale, dall’altra nell’impossibilità da parte delle singole aziende agricole di selezionare semi ibridi, come quelli del mais, o nella difficoltà di stoccare e “conciare” correttamente semi non ibridi di seconda riproduzione, come quelli del frumento o della colza, garantendo una percentuale di germinazione accettabile. In parole povere, agli agricoltori conviene ricomprare i semi e lo fanno regolarmente da decenni prima che comparisse sul mercato il primo Ogm, senza che la cosa abbia mai scandalizzato nessuno.

La storia del cotone indiano, invece, è una storia di successo: grazie agli Ogm l’India è diventata il secondo produttore mondiale di cotone nonostante un sistema produttivo che ancora si poggia quasi esclusivamente su aziende di piccola scala. Questo particolare ci porta direttamente alla prossima leggenda, quella secondo la quale gli Ogm andrebbero bene solo per le grandi monocolture, per il latifondo, distruggerebbero i piccoli agricoltori e trasformerebbero il pianeta in una immensa piantagione di mais e soia in mano a pochi monopolisti del settore. Checché ne dica Vandana Shiva, il cotone Bt ha avuto tanto successo in India perché viene incontro ad alcuni problemi specifici proprio delle piccole aziende agricole: l’alternativa al cotone Bt, che è resistente all’attacco degli insetti, è l’uso massiccio di costosi insetticidi attraverso attrezzature che i contadini indiani, semplicemente, non potevano permettersi di acquistare. Alla riduzione dei costi per l’acquisto degli insetticidi e per la loro irrorazione si è aggiunta anche una maggiore protezione delle colture e raccolti più stabili e abbondanti (per non parlare del vantaggio ambientale).

C’è anche una variante nostrana di questa leggenda, che racconta che gli Ogm non sarebbero adatti all’agricoltura italiana, per ragioni tutto sommato simili. Noi siamo vocati alla qualità, facciamo il radicchio di Chioggia e il lardo di Colonnata,  ripetono da decenni i ministri dell’Agricoltura di ogni colore, che ce ne facciamo della soia e del mais Ogm? Vogliamo forse trasformare l’Italia nel Corn Belt? Quindi gli allevatori italiani gli Ogm non possono coltivarli, ma devono acquistare mangimi prodotti con farine di mais Ogm proveniente dall’estero, anche nelle filiere a denominazione di origine protetta, dato che il mais che già producono contiene spesso una quantità troppo elevata di fumonisine (queste sì, davvero cancerogene) a causa degli attacchi di piralide che sarebbero sventati dall’impiego di mais resistente ai parassiti. E se poi davvero gli Ogm non servissero, fossero inutili, non si adattassero alle caratteristiche del nostro settore agricolo, che ragione ci sarebbe di vietarli? Andrebbero fuori mercato in meno di un minuto, e non se ne parlerebbe più. Ma forse dietro questo mito si nasconde la convinzione che gli agricoltori non siano altro che dei poveri allocchi, buoni solo a fornire suggestive scenografie per le scampagnate della middle class urbana, bisognosi di guida e assistenza nelle loro scelte imprenditoriali: “Dove sono i papaveri, i fiordalisi o la camomilla, da sempre fedeli compagni del grano?”, lacrimeggiava Susanna Tamaro dalle pagine del Corriere rimpiangendo le infestanti che, ai tempi “de poro nonno”, impedivano ai contadini raccolti dignitosi.

I miti e le leggende sugli Ogm attecchiscono facilmente, non solo per la malafede di chi li propaga, ma anche perché l’opinione pubblica ha difficoltà ad accettare qualcosa che percepisce come “contro natura”. L’idea di una mutazione genetica prodotta chissà come in qualche oscuro laboratorio, che ne potrebbe indurre altre in una catena fuori controllo, è chiaramente roba da film-spazzatura, ma è effettivamente questa immagine, riprodotta nell’icona del “Frankenstein food” tanto cara agli attivisti anti Ogm, a colpire allo stomaco e ad essere efficace. Gli Ogm differiscono dalle altre varietà vegetali solo per la tecnica attraverso la quale si è intervenuti sulle sue caratteristiche. Non sono meno naturali delle varietà convenzionali, ma la propaganda contro gli Ogm si nutre di queste paure e le strumentalizza. E’ normale vedere attivisti di Greenpeace entrare nei campi Ogm indossando tute asettiche e maschere antigas. Di cosa avranno mai paura? E un video diffuso recentemente da Coldiretti spiegava (nientemeno) che un campo di mais Ogm può far diventare Ogm anche le viti e gli ulivi circostanti. Non a caso il tema della contaminazione attraverso il polline, che nella realtà è un “non-problema” ovunque nel mondo gli Ogm vengano coltivati accanto a varietà convenzionali, è al centro di un dibattito spesso farsesco e surreale: nel 2010, per opporsi a una nuova normativa europea sugli Ogm, Greenpeace riuscì a dire che le nostre coltivazioni sarebbero state minacciate dai pollini geneticamente modificati provenienti nientemeno che dagli altri paesi, oltre le Alpi e il mare.

Con le bufale sugli Ogm si potrebbe andare avanti fino a riempire i volumi di un’enciclopedia, tante ce ne sono e tanti sono gli aneddoti e le citazioni paradossali che potrebbero essere riportate, dagli insetti (farfalle e api, soprattutto) che verrebbero sterminati dagli Ogm, alle erbe “superinfestanti” che dilagherebbero fuori controllo, dal “gene terminator”che renderebbe le piante sterili, che non esiste ma che viene sempre citato, fino al presunto aumento dei pesticidi indotto dalla coltivazione di varietà transgeniche (è vero l’esatto contrario). Quel che manca nel dibattito sulle biotecnologie applicate all’agricoltura è soprattutto quel sano senso del limite che in genere viene attivato dalla percezione di oltrepassare la soglia del ridicolo.