Convegno Treviso su 150° Anniversario Plebiscito Unione del Veneto all’Italia.

Categoria: Cultura

 Relazione di Benito Buosi, Treviso 22 Ottobre 2016

                                      

I primi reparti dell’esercito sardo  ad entrare a Treviso per Porta SS.Quaranta, nel pomeriggio di domenica 15 luglio 1866, furono le giubbe blu del III Squadrone del Reggimento Cavalleggeri Monferrato, agli ordini del cap.Manara.  Come ci ha puntualmente ricordato la Tribuna nel numero uscito quel giorno di tre mesi fa. Un bello spirito dell’epoca, evidentemente molto attento alle combinazioni del  calendario, osservò che gli Austriaci, 50 anni prima, nel 1813, erano rientrati a Treviso, dopo la buriana napoleonica, nel giorno dei  Morti. Gli Italiani ora ci entravano invece nel giorno del Redentore.

 Questa entusiasta applicazione della liturgia religiosa alle cose terrene ha un fondo di verità perché si può ben dire  –e l’abbiamo già sentito da altre relazioni- che la libertà del ’66 sia una libertà piovuta dal cielo, per grazia ricevuta da Prussia e Francia, non certo guadagnata con la  forza delle armi nostre e tanto meno per rivolgimento di popolo. Avrà l’effetto taumaturgico di far uscire d’un colpo i trevigiani  dal regno delle tenebre a quello della luce?

50 anni sono davvero tanti e troppo breve è stata la discontinuità, la relativa discontinuità della primavera del ’48, quando Treviso visse 84 giorni di governo libero., sullo slancio di alcuni provvedimenti di forte impatto sociale,( come l’abolizione dell’odiata tassa personale, la riduzione del prezzo del sale e l’introduzione del calmiere sui generi alimentari), con il concorso di folte schiere di volontari provenienti da ogni parte d’Italia, è stata solo una parentesi, che si è chiusa senza lasciare impronte durature nella società trevigiana. A “normalizzare” l’episodio ci si è messo poi anche colui che è stato a capo di quel governo provvisorio, rivendicando Giuseppe Olivi a proprio merito quello di aver tenuto a freno le teste calde e di essere riuscito a tenere sotto controllo l’ordine pubblico, come se questa fosse stata la sua più alta missione.

Dopo gli 84 giorni e la rioccupazione degli Austriaci,  gli uomini politici più esposti furono banditi, altri emigrarono spontaneamente in Piemonte, infine se ne sono quasi perse le tracce.

 A parte la parentesi del ’48, dobbiamo considerare che ben due generazioni di trevigiani sono nate e cresciute sotto l’ala dell’aquila bicipite: non è poco  Sarebbe dunque un errore credere che in un tempo tanto lungo la società trevigiana sia stata divisa tra un popolo fremente di patrioti da un lato e dall’altro lato solo da un regime di polizia.( Sugli isolati episodi insurrezionali abbiamo già sentito i limiti in altre relazioni.)

Ce ne dà prova  Luigi Giacomelli, che è stato l’ultimo podestà nella terza Dominazione austriaca. Dopo aver rassegnato le dimissioni a Treviso liberata, Giacomelli non si perita di far pubblicare un minuzioso elenco di importanti opere pubbliche  portate a termine nei 14 anni in cui egli ha governato la città,  anni  che lui stesso chiama “della vergogna e del dolore”, sentimenti che comunque non gli hanno impedito di stare attivamente al vertice dell’amministrazione locale dal 1852 al ’66.

C’è dunque più di qualche elemento che dà credito al dubbio che fosse possibile attivare fin da subito una dialettica di stampo liberale, che dia concretezza all’esercizio della libertà d’opinione. di stampa, d’associazione . E’ un dubbio che manifesta anche uno dei piccoli giornali dalla breve vita che si stampano fin dai primi giorni della liberazione. Si poteva leggere sul Corriere del Sile:

“”50 anni di malgoverno non ponno non lasciare piaghe profonde nella vita materiale e morale di un popolo; così profonde che lo sguardo del governo non può riconoscerle tutte se non ci poniamo a fungervi  e incontanente  da noi. Per riparare allo stato del commercio, dell’industria agricola e manifattrice, dello spento impulso d’associazione e del supremo dei danni, l’ignoranza, si richiede uno studio e un ardore di attività, al quale purtroppo non siamo avvezzi.”” (41/21)

Questo scettico appello ad una riscossa che va  compiuta con le proprie mani avrà una risposta piuttosto tardiva, poiché passeranno quasi tre mesi dalla liberazione prima che si abbozzasse una qualche forma di associazione politica con l’ambizione di rappresentare e di aggregare il nuovo spirito pubblico.

E’ pur vero che l’entusiasmo manifestato il giorno del Redentore –se entusiasmo davvero ci fu- si sarà ben presto alquanto raffreddato qualche giorno dopo, per  le tristissime notizie che vengono dal mare di Lissa (20 luglio), di Custoza si sapeva già da un mese; e peggio ancora per la notizia della pace stipulata in gran fretta tra Prussia e Austria (26 luglio).

Ora che l’Austria non deve più badare al fronte nord,  ha la possibilità di concentrarsi tutta sul Veneto, dove ancora occupa enclave di primaria importanza, come il porto di Venezia  e il formidabile Quadrilatero veronese. Anche se Cialdini con la sua V armata è giunto  a Udine il 26 luglio, nello stesso giorno delle cessate ostilità tra i due grandi nemici.

Insomma, una situazione d’incertezza che non favorisce l’avvio di una vita politica normale.

Sembra non avere invece incertezze il governo Ricasoli che, a guerra ancora in corso e dall’esito tutt’altro che scontato (ma nello sfondo ci sono sempre gli affidamenti francesi a tranquillizzare, e irritare ) procede, il 18 luglio, all’istituzione della figura del Commissario Regio,  figura dotata di poteri speciali a cui affidare il governo provvisorio delle province venete, mano a mano che vengano sgomberate dalle truppe austriache che si stanno ritirando rapidamente verso il Friuli.

I decreti di nomina seguono la marcia a tappe forzate  della V armata di Cialdini che, al ritmo di 30 km al giorno, in 2 settimane dal Po raggiunge l’Isonzo. Così il 18 luglio, qualche giorno dopo l’occupazione di Rovigo, Padova e Vicenza, furono rispettivamente nominati Allievi a Rovigo, Pepoli a Padova, Mordini a Vicenza. Il 28 luglio, una settimana dopo l’occupazione delle province di Treviso e Udine, vengono nominati D’Afflitto a Treviso e Q.Sella a Udine.

Poteri civili al seguito dei militari. Ciò che preme al governo è di presidiare il territorio mano a mano che si renda libero. Lo scopo evidente è di evitare vuoti di potere, sospensioni di legalità. Soprattutto in un momento in cui la pessima conduzione della guerra potrebbe provocare sbandamenti pericolosi nella popolazione locale.

Fatto sta che i trevigiani faticano a star dietro alla rapidità con cui si susseguono gli avvenimenti, sia sul fronte della guerra che sul fronte interno.

Il 30 luglio il podestà Luigi Giacomelli, senza attendere l’arrivo del Commissario del Re (che arriva a Treviso il 4 agosto), rassegna le dimissioni  e d’imperio, in pochi giorni, D’Afflitto nomina (l’8 ag.)i 30 nuovi consiglieri comunali, del tutto diversi dai precedenti. Infine un R.D.1 ag.indice per il 28 settembre le  elezioni amministrative da tenersi con la legge elettorale che è già in vigore nel Regno.

Anche  i  risultati di questo primo voto libero confermano i dubbi di cui si diceva circa le disposizioni d’animo dei trevigiani. Infatti solo un terzo degli elettori si recarono alle urne.

E per essere la “prima volta” in un regime libero, è davvero un ben magro risultato, per quante e diverse siano le spiegazioni che si vogliano dare ad una astensione tanto massiccia. la spiegazione più scontata parla di disabitudine alla luce della libertà.

Altre  ragioni considerano Il lunghissimo tempo dedicato alla revisione delle liste elettorali per adeguarle ai nuovi criteri di formazione dell’elettorato attivo hanno lasciato pochi giorni alla riflessione degli elettori. Secondo i critici della fretta con la quale si sono fatte le cose,  una così alta astensione si spiega  proprio nel tempo che è mancato a preparare gli animi intorpiditi dall’abitudine a non partecipare, e poi nella mancata pubblicità sui candidati, tanto più in un caso come questo in cui non c’erano liste concorrenti, tutti gli elettori potendo essere eletti e ancora il fatto che le elezioni siano state indette in giorno feriale: difficile distogliere la gente dalle sue occupazioni. Infine, soprattutto nei centri minori, la lamentela che i pochi seggi allestiti per le urne del voto avrebbero frustrato la partecipazione degli elettori residenti nelle frazioni. E non da ultimo l’accusa al commissario D’Afflitto di non aver fatto nulla per promuovere la partecipazione, intendendo in questo modo di favorire i moderati.

E’ quanto sostiene, nero su bianco, uno dei più attivi cospiratori degli anni appena trascorsi, il cenedese A.Bonaldi, in una lettera aperta ad Alberto Cavalletto, riconosciuto leader in esilio dei moderati veneti.

Difficile far parlare un non voto, ma tra le ipotesi non si può escludere che sia mancato nelle urne il voto di tutto quell’elettorato cronicamente misoneista, oppure solo scettico, al quale la luce del Redentore non ha ancora aperto gli occhi, oppure dei cittadini intimoriti dalle nuove tensioni createsi nei rapporti tra Stato e Chiesa dopo i recentissimi provvedimenti presi dal governo Ricasoli con l’abrogazione del concordato  austriaco del 1855 e ancor più con la soppressione degli ordini religiosi, misure queste che certamente hanno offeso i sentimenti religiosi di parte cattolica e turbato  le idee conservatrici di quella  borghesia  che nella Chiesa ha sempre apprezzato il  ruolo di stabilità che essa svolge, soprattutto nelle campagne.

L’antecedente del ’48 potrebbe dirci qualcosa in merito, considerando che il governo Olivi conobbe i suoi maggiori successi nelle prime settimane, quando sui muri di Treviso si scriveva W l’Italia ma anche W Pio IX,(come si può scorgere sulla bandella del pieghevole del convegno, nel particolare del quadro dipinto da Pavan Beninato nel 50° del ’48, dove gli evviva alla nazione e al papa sono scritti sulle colonne centrali della fronte del Duomo, dove si staglia l’alta statura di G.Olivi).Era il progetto neoguelfo, che piaceva a molti,di una confederazione di stati italiani sotto la guida del papa. Sogno durato poco più di un mese, a causa della docci a fredda provocata dall’allocuzione  al Concistoro del 29 aprile con la quale  il Papa precisava le sue intenzioni e ritirava le sue truppe dalla guerra all’Austria.

Fatto sta che quando, a distanza di tre mesi, si terranno nuove elezioni amministrative,per essere in sintonia con tutte le altre province del regno e con la novità del Consiglio Provinciale, istituto non previsto dall’ordinamento austriaco, i risultati della partecipazione al voto furono anche peggiori.

Infatti Il numero dei votanti passò dal 36.9% di settembre al 31.3% del 20 dicembre. (mi limito alle % perché in regime di voto ristretto, i valori assoluti, le nude cifre, direbbero poco)

Un altro elemento di contraddizione in questo passaggio tra vecchio e nuovo si può cogliere nel comportamento di voto alle elezioni politiche, che si terranno in via straordinaria il 25 novembre per i 50 nuovi seggi che spettano alle 8 province venete (più Mantova) perché  possano partecipare ai lavori  della IX legislatura del parlamento nazionale, per la quale il resto del regno ha già votato l’anno prima, nel nov. ’65.

In vista del voto,  si è finalmente costituita ai primi di ottobre l’UL, l’associazione che si propone come punto di raccolta di tutti i liberali.

Il motto è “Libertà e progresso”, dove il primo termine assorbe completamente il secondo, nel senso che il progresso è già implicito nell’esercizio stesso della libertà: sintesi semplificatrice, che è comprensibile in quella generazione di patrioti in esilio che hanno fatto della conquista della libertà la loro bandiera esistenziale. Il loro programma è succintamente incardinato in tutti i corollari della libertà politica, e ciò consente di dare all’associazione un quadro di riferimento semplificato e una latitudine che dovrebbe essere sufficiente a comprendere e rappresentare tutto il mondo liberale.

Ai vertici dell’associazione  si fanno vedere più i reduci  che gli stanziali, quelli che hanno lasciato tutto a Treviso più di quelli che hanno scelto invece di rimanere. Troviamo esponenti  dell’emigrazione politica, quella dei più giovani che hanno lasciato il Veneto dopo Villafranca, amaramente delusi dall’inopinata interruzione della guerra di liberazione che lascia il Veneto in mano austriaca. Ma anche  meno giovani, come il medico Francesco Sartorelli, (1824-1903) passato in Lombardia e subito attivissimo nel Comitato di Emigrazione di cui viene eletto segretario e poi addirittura eletto de putato  nell’ultima legislatura del Parlamento subalpino. Sartorelli è’ in assoluto il primo trevigiano eletto ad un’assembla parlamentare. Con lui c’è Domenico Mantovani-Orsetti,(1831-1915) emigrato a Pavia e poi a  Bologna una volta liberata dal dominio pontificio, dove ebbe la cattedra universitaria di diritto pubblico. C’è anche un garibaldino come Antonio Mattei,(1840-1883) ancora claudicante per la ferita al piede riportata, appena tre mesi prima, il 3 luglio, combattendo coi garibaldini in Val Camonica, nella battaglia di Vezza d’Oglio. 

Anche alla direzione del nuovo quotidiano, la Gazzetta di Treviso, portavoce dell’UL, appena uscito (3 ottobre) troviamo un  giovanissimo emigrato a Firenze, dove collaborava alla Nazione, Francesco Galanti, che, rientrato a Treviso, diventa  presto insegnante al Liceo Canova.

L’UL traccia il perimetro dell’area d’opinione  che intende rappresentare e lo fa seguendo un procedimentoo ad excludendum: a priori vengono esclusi gli austriacanti e i clericali, tutti quelli che hanno servito il cessato governo o anche semplicemente simpatizzato per il vecchio regime e ancora coloro che sono fautori del potere temporale del Papa, considerato l’ostacolo principale al compimento dell’unità nazionale. Si aggiunge l’identikit del candidato ideale da sostenere. Tra le virtù personali richieste primeggiano la dirittura morale, l’onestà e l’integrità della vita pubblica e privata, l’indipendenza di giudizio.

In occasione delle prime elezioni politiche a Treviso, indette, come dicevamo  per il 25 novembre, l’UL decide di proporre al consenso degli elettori 6 candidati, uno per ciascuno dei 6 collegi uninominali in cui  è stata divisa la provincia (3 sulla DP, 3 sulla SP). La partecipazione fu di gran lunga superiore al solito, raggiungendo i due terzi degli aventi diritto. Ma i risultati confortarono solo in parte le indicazioni di voto date all’UL.

Poiché in questa prima fase la lotta politica non si svolge ancora sui temi centrali del dibattito nazionale (che sono soprattutto la politica finanziaria e il riordinamento amministrativo del regno dopo le numerose annessioni), i candidati si fronteggiano esibendo come carta di credito le proprie biografie, proponendo una reputazione personale guadagnata in passato più che  un punto di vista che sia rivòlto alle riforme del futuro.

Allora può essere interessante e istruttivo accostare qualche biografia di  candidati di successo e di candidato battuti.

 Un risultato particolarmente deludente fu quello del collegio di Montebelluna, dove fallì clamorosamente la candidatura di Angelo Ducati, un avvocato trentino espulso nel ’48 ed emigrato a Milano, che era stato suggerito come testimonianza dello spirito irredentistico di quella provincia rimasta esclusa dai confini italiani tracciati con la pace di Vienna. La presenza di Deodati in parlamento sarebbe servita a non far dimenticare la questione trentina, soprattutto dopo la cocente delusione del dietrofront che l’armistizio di Cormons  ha  imposto a Garibaldi e a Medici, quando erano ormai giunti vittoriosi a pochi km da Trento.

Non andò meglio a un noto reduce del ’48, Carlo Alberto Radaelli da Roncade,(1820-1909) largamente battuto nel collegio di Oderzo da Pietro Manfrin,  segretario del commissario regio  D’Afflitto. Mazziniano della prima ora e promotore assieme ai fratelli Bandiera della società segreta Esperia, affiliata alla Giovine Italia, e poi capace organizzatore e guida della Guardia nazionale durante l’assedio di Venezia nel 48-49. Egli era tra i non molti antifusionisti, tra quei patrioti che non accettavano la fusione della repubblica di Manin con la monarchia dei Savoia richiesta dal governo di Torino come pre-condizione  per soccorrere Venezia. Poi si distingue come tenente colonnello nella campagna delle Marche-Umbria, guadagnando la medaglia d’argento e la promozione a colonnello dopo l’assedio di Ancona. Lo troviamo nella campagna condotta contro il brigantaggio nelle province meridionali, svolgendo anche il compito di presidente del tribunale militare di Potenza. Nell’anno fatidico, 1866, si trova ancora lontano da Treviso, poiché gli è assegnato il comando militare a Palermo, durante la repressione dei moti di settembre e subito dopo l’incarico diplomatico di trattare con il governo di Berlino la liberazione dei 4000 veneti che avevano combattuto in divisa austriaca, fatti prigionieri dai prussiani. Altro caso emblematico è quello di Ferdinando Ferracini proposto senza successo nel collegio di Ceneda.

Ferracini (1808-82) è un miranese, trapiantato poi nelle sue terre di Codognè di cui diventerà sindaco.

 Si trova a Venezia nel ’48,   nella Guardia civica, fondatore del Circolo del Progresso nel sestiere di Castello. Caduta Venezia L’Austria gli confisca i beni e lo priva dei diritti civili. Coinvolto nel processo di Mantova per il caso Tazzoli, vi scontò un anno di carcere prima dell’amnistia. Emigra in giro per l’Europa prima di arruolarsi tra i Mille di Garibaldi combattendo da Calatafimi fino al Volturno, dove fu ferito. Smobilitato il corpo dei volontari entrò nell’esercito regolare col grado di Maggiore. Impegnato per 2 anni nella lotta al brigantaggio, partecipò anche alla terza guerra d’indipendenza combattendo a Custoza. La candidatura arriva  dunque appena 5 mesi dopo aver deposto per sempre le armi.

Chi ha battuto sonoramente il trentino Deodati nel collegio di Montebelluna è il coneglianese Pietro Fabris. (1805-78) Nel ’48 si trova a Venezia come deputato centrale nell’amministrazione austriaca. Ha una brevissima presenza come assessore nella giunta Correr, e come tale è tra gli estensori della dichiarazione di resa firmata dal governatore austriaco Pallfy. Dopo la resa della città, un anno e mezzo dopo, figura tra i 40 patrioti indesiderati e banditi da Venezia. Il bando dura poco perché Fabris approfitta dell’amnistia concessa nel 1854 per tornare in patria ed esservi nominato podestà dal 1858.  I coneglianesi hanno serbato di lui un ottimo ricordo per la capacità dimostrata di saper tenere i conti in ordine nel bilancio comunale.

Il caso più eclatante è quello di Antonio Caccianiga (1823), che stravince a Treviso, raccogliendo l’87% dei voti. E si badi che nel ’66 non ha ancora scritto nessuno dei saggi e dei romanzi con i quali si è guadagnato popolarità, prestigio e consenso unanime della critica.  Nel ’48 C. si trova sulle barricate di Milano, dove ha fondato un periodico satirico “Spirito folletto”. Chiusa l’esperienza milanese emigra  girando per 6 anni le principali città d’Europa, preferendo lo studio e la conoscenza delle realtà urbane più avanzate, piuttosto che frequentare le riunioni, che lui considera inconcludenti, degli emigrati politici. Nel 1854 cogliel’occasione di un’amnistia per far ritorno in patria e dedicarsi anima e corpo al lavoro dei campi, nella sua villa di Saltore. Non disdegna di essere eletto deputato di Maserada e poi di  entrare nella Congregazione Centrale a Venezia, giusto pochi mesi prima della III guerra d’Indipendenza.

Sarebbe sicuramente esagerato e ingiusto dargli del collaborazionista ma è evidente che il consenso plebiscitario ottenuto quando ancora il successo letterario è di là da venire, dimostra quanto i trevigiani apprezzassero quel suo modo di fare politica senza propositi eversivi, accettando incarichi pubblici malgrado l’occupazione straniera,  svolgendo garbatamente la sua critica all’interno delle istituzioni esistenti. Sono queste le benemerenze che vengono premiate da i pochi trevigiani che votano.

In una nota autobiografica di Caccianiga spuntano anche  intenti pedagogici circa la condotta di vita che deve distinguere un buon italiano. Caccianiga lo fa In una esemplare lettera aperta sulla Gazzetta di Treviso, alla vigilia delle elezioni.  “Avrei voluto servire la nazione da semplice cittadino, coltivando le mie terre, migliorando il suolo della patria (notare l’identificazione), svelando ai possidenti i vantaggi privati e pubblici delle occupazioni campestri, insegnando ai miei coloni l’onestà , e il lavoro intelligente” (21/41) Si può ben immaginare quanto potesse piacere questo ritratto , idealtipo della sana proprietà terriera.

Casi di preferenze espresse a favore di personaggi compromessi col passato regime si avranno ancora di lì a pochi mesi quando, nel marzo 1867, la crisi del II governo Ricasoli determinò la fine anticipata della IX legislatura e l’indizione di nuove elezioni politiche.

 E’ il caso del conte Giuseppe Valmarana, ex capo di gabinetto dell’Arciduca Massimiliano, che nel collegio di Oderzo toglie il seggio al conte Manfrin.

Altro caso riguarda il collegio di Ceneda dove il bellunese Giovanni Cappellari della Colomba riesce a battere largamente (63%) il locale Pellatis.

Il vincitore ha svolto una buona carriera amministrativa sotto l’Austria e all’Austria la sua famiglia deve il titolo nobiliare. Ha fatto carriera anche nell’amministrazione italiana fino alla nomina di consigliere di Stato (che potrebbe essere titolo più che sufficiente per la riabilitazione). Ma il fatto di essere nipote di Gregorio XVI, il papa antiprogressista per antonomasia, ne fa un personaggio scomodo per i patrioti più accesi e meno inclini all’oblio del perdono.

Sembrerebbe di poter concludere che significative preferenze vengono accordate ad uomini che meno si sono impegnati nell’avversione all’occupazione straniera, o che, se l’hanno fatto, l’hanno fatto  in tempi   lontani come quelli del ’48,  smorzati ormai nella memoria, uomini che hanno poi avuto saggi ripensamenti, per evitare più dolorose conseguenze  alla famiglia e alla professione. Disillusi sulla possibilità concreta di cambiare le cose senza il determinante intervento della monarchia sabauda e senza l’appoggio delle diplomazie europee.

L’emigrazione politica, lungi dall’essere considerata con il rispetto dovuto a chi ha sacrificato affetti e beni per sottrarsi alle persecuzioni e che, anche lontani dal Veneto, hanno svolto una preziosa funzione di aggregazione e resistenza morale  in Piemonte e in Lombardia tra i tanti veneti che avevano passato il Mincio dopo Villafranca, sembra  un’esperienza che non tocca da vicino la sensibilità cittadina, come se gli esuli, lontani dai problemi della città, siano diventati degli estranei.

In conclusione, solo un elettore su tre vota secondo le indicazioni dell’Unione Liberale, e uno su quattro vota simpatizza per candidati che hanno occupato posizioni di rilievo nella pubblica amministrazione durante l’occupazione austriaca.

Se vogliamo saperne di più sui temi più propriamente politici di cui forse si discute a Treviso nei primi mesi della liberazione,  bisogna lasciare le schermaglie elettorali e affidarsi alla stampa.

La stampa, pur con tutti i limiti come fonte di ricerca, era pur sempre l’unico mezzo di comunicazione di massa,  di una massa che si riassume ovviamente in una cerchia ristretta di pubblico, quasi tutto urbano, che è il pubblico avvezzo alla lettura. E infatti le tirature di questi giornali di periferia contano poche centinaia di copie, che non raggiungono certo le campagne, sempre assillate da antichi problemi di bisogni primari cronicamente insoddisfatti. I contadini assistono pressoché impassibili al corso di queste vicende, rispetto alle quali si sentono del tutto estranei. Senza considerare la funzione sedativa svolta da  un clero che è largamente favorevole al mantenimento dello status quo.

Tralasciando i modesti fogli sperimentali eroicamente usciti fin dai primissimi giorni della liberazione (Corriere del Sile prima e La Provincia poi) e durati poche settimane, e prendendo in considerazione la Gazzetta di Tv, il quotidiano più strutturato  e ambizioso, l’unico a reggere e durare quarant’anni, pur  sotto direzioni e orientamenti diversi, salta all’occhio l’assenza, p.e., di quei cahiers de doléance  che di solito fioriscono ad ogni passaggio di regime. Lo stato dell’economia locale, p.e., avrebbe giusitificato delle liste di bisogni e di rivendicazioni. Con ingenuo ottimismo il giornale ritiene invece che basteranno le condizioni nuove di libertà a mettere automaticamente in moto la vita sociale e quindi anche la macchina delle attività produttive.  Sottovalutando il quadro più generale delle difficilissime condizioni economiche nazionali ed europee e i travagliati progetti di Sella e Minghetti per incrementare imposte e tasse con l’obiettivo di ridurre l’enorme disavanzo pubblico, dovuto per almeno due terzi alle spese di guerra.

La questione che sta più a cuore è invece di ben più grande momento, perché è di natura istituzionale ed investe direttamente le forme del nuovo stato.

La Gazzetta di  TV rinfocola una polemica mai del tutto sopita e che risale a sette anni avanti, quando con frettolosa disinvoltura U.Rattazzi, ministro dell’Interno del I gov.Lamarmora, usò i pieni poteri che il governo aveva per la conduzione della guerra, per estendere alla Lombardia, appena liberata a seguito della pace di Villafranca, l’ordinamento amministrativo dello Stato Sardo, senza discussioni e consultazioni di sorta. (L.23 ott.1859).

Rattazzi fu allora al centro di  numerose critiche mosse  da un parlamento che era rimasto escluso da un così  importante atto di fondazione. E la stampa democratica non fu da meno. F.S., allora redattore del Pungolo, battagliero quotidiano milanese fondato da Leone Fortis proprio nei giorni vittoriosi di S.Martino e Solferino, attaccò più volte Rattazzi per questo doppio eccesso di potere. E tornato a Treviso non poteva essersene  dimenticato, proprio nel momento in cui si presentava in Veneto una situazione del tutto simile a quella lombarda del ’59.

L’ammonimento, fin dal primo numero del giornale (uscito il 2 ottobre 1866), è allora questo: “La legislazione non segua l’occupazione”. I nuovi ordinamenti non vengano portati in Veneto sulla punta delle baionette. “Noi siamo partigiani del discentra mento amministrativo”. Bisogna evitare il “piemontesismo”, termine negativo che sembra uscito dalla penna degli attuali detrattori del processo risorgimentale ma che aveva invece già all’epoca ampia circolazione tra gli oppositori delle politiche di accentramento.  “Il codice sardo –si legge sulla Gazzetta di TV-  non può estendere il suo impero quanto si estese l’occupazione della valorosa armata di questo piccolo Stato. Le varie parti della penisola dominate per lunghissimo tempo da governi diversi e spesso ancora nemici, si mostravano, direm così, estranee le une alle altre il giorno che vennero a fondersi in una famiglia politica. Diversi erano i loro bisogni, i loro costumi, la loro civiltà, per lo chè sarebbe stato improvvido il sottoporle immantinentemente all’impero di una legge che non poteva corrispondere alle loro condizioni economico-morali.”.

E dunque ci si augura che Il governo” studierà di conoscere le attuali condizioni politico-morali della veneta popolazione e provvederà all’applicazione della legislazione italiana con quella calma e con quella direm così circospezione che scansa per quanto è possibile le scosse e il disordine senza avere il pregiudizio e il proposito di rifiutare quel qualsiasi che di meglio fosse da rinvenirsi nella vigente legislazione austriaca”.

 E il governo Ricasoli infatti questo problema se lo era posto, tanto è vero che  nominò una commissione di esperti di cose venete, sotto la regìa di C.C., allo scopo di valutare, nell’imminenza dell’annessione, i modi “per conservare quanto più si potesse la forma delle pubbliche istituzioni senza lasciare alcun impedimento alla trasfusione del nuovo spirito.”. La commissione Correnti accolse di buon grado questo indirizzo “di scuotere il meno possibile, durante un primo periodo di transizione, gli ordini civili ed amministrativi esistenti nelle provincie venete, al duplice scopo di fare che i mutamenti si operassero poi col minor turbamento di abitudini e di interessi delle popolazioni, e di lasciar in piedi alcune istituzioni, che nel seguito potessero porgere occasione di utili esperimenti e di osservazioni per quelle riforme che furono dal parlamento tante volte invocate”. Le  buone intenzioni insomma c’erano, e il tempo di valutarle anche, poiché, con sorprendente coincidenza di tempi, Correnti consegnò le conclusioni del lavoro di gruppo il 15 luglio, cioè nel giorno stesso della liberazione di Treviso.

 Se le buone intenzioni c’erano e il tempo di valutarle anche, non se ne fece nulla. Basterà sottolineare la fretta con cui il governo decise di procedere. Respinta di fatto la proposta della comm.C. di mantenere una figura istituzionale che rappresentasse unitariamente le 8 province venete (come era avvenuto, del resto, in Siclia, a Napoli, in Toscana mantenendo dopo l’Annessione luogotenenti e governatori) appena 15 giorni dopo la presentazione Correnti, il governo procedette alla nomina dei commissari regi, uno per provincia,esprimendo così la volontà di non riaprire col caso veneto il controverso dibattito seguito alle proposte regionaliste prsentate senza successo da Minghetti nel ’61.

Anche nel dibattito parlamentare che seguì nei tre anni dopo l’annessione del Veneto, finirono per prevalere le idee originarie di Ricasoli, convinto che l’unità politica italiana potesse essere realizzata e consolidata soltanto con un governo forte, autoritario e accentratore, osteggiando fermamente ogni aspirazione autonomista, federalista, regionalista.

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