Sempre più protagonisti, sempre meno potenti: benvenuti nell’era della social-politica

Categoria: Cultura

I social network hanno cambiato le regole della comunicazione e della politica. Apparentemente, dando un enorme potere al popolo. Nei fatti, le cose sono andate un po’ diversamente: una riflessione dalla lettura di “Disinformazia” di Francesco Nicodemo

di Francesco Cancellato 2 Settembre 2017 - 08:30, da www.linkiesta.it

 “Undici anni fa il «Time» incoronò persona dell’anno «You», ovvero ciascuno di noi. In copertina campeggiava anche la frase dai toni entusiastici «Yes, you. You control the information age: Welcome to your world»”. Così comincia “Disinformazia” (Marsilio, 2017), saggio di Francesco Nicodemo che, da sottotitolo, si occupa di “comunicazione ai tempi dei social media”.

Sì e no. Perché è vero, il libro parla di Facebook e dei social network, di camere dell’eco e di bolle informative, di fake news e fact checking. Di tutte quelle cose su cui, sopratutto i media, in un incessante ricerca di senso e di riconquista di una centralità perduta, stanno discutendo incessantemente, più o meno dalla vittoria di Brexit al referendum sulla permanenza britannica nel Regno Unito e da quella di Donald Trump alle elezioni presidenziali americane. Due esiti, che forse nei libri di storia ricorderemo come il “grande terremoto politico del 2016”, vissuti dal mondo dell’informazione come vere e proprie sconfitte. Sia perché parteggiava in massa per l’alternativa poi risultata perdente. Sia perché non è stato in grado, in entrambi i casi, di prevederne l’esito.

In realtà, e basterebbe scorrere l’indice per accorgersene, quello di Nicodemo è un libro che parla di politica. Meglio: che punta dritto al cuore di una delle grandi questioni politiche della nostra epoca di figli della globalizzazione, della crisi, del tecnocene: davvero questo è il nostro mondo? Davvero controlliamo l’età dell’informazione? Davvero siamo diventati così tremendamente potenti, come preconizzava Time nel 2006?

Alcune evidenze concorrono a confermare questa teoria. È vero, nel mondo dell'informazione i contenuti generati dagli utenti hanno ormai il potere di orientare l’opinione pubblica quanto o più di quelli veicolati dai media tradizionali. Rise of the reader, l’ascesa del lettore: così ha definito questo fenomeno Katharine Viner, vice direttore del Guardian, uno dei più importanti quotidiani inglesi: ”La rete ha cambiato il modo in cui organizziamo l’informazione in modo molto chiaro - scrive -: dal formato solido e circoscritto di libri e giornali in qualcosa di liquido e fluido, con possibilità illimitate (che) non è completamente nuovo, ma al contrario è un ritorno alle tradizioni orali di ere lontane”. Cita la teoria dell’accademico danese Thomas Pettitt’s, la Viner, secondo cui tutto il periodo successivo all’invenzione della stampa a caratteri mobili - dal quindicesimo al ventesimo secolo - non sia che una pausa, “un’interruzione del normale flusso della comunicazione umana”. La parentesi di Gutenberg, la definisce.

Allo stesso modo, questa grande trasformazione si è riverberata sulla politica. L’ascesa dei cosiddetti populismi, nei fatti, non è che un’altro effetto di quella copertina di Time. Non a caso, tutte le esperienze politiche che facciamo ricadere sotto questo cappello interpretativo sono emerse dal momento in cui la rete è diventata luogo di piattaforme “user generated”. Esattamente come con l’avvento della stampa, la democratizzazione dei mezzi d’informazione aveva dato vita a una sovversione del quadro politico. Una sovversione nei rapporti di forza tra diverse formazioni, certo. Ma anche nei rapporti di forza interni alle singole formazioni: l’idea di “partito liquido” o anche solo quella di “partito-comunità” evocata da Nicodemo avrebbe fatto rabbrividire Togliatti e De Gasperi (e, del resto, fa rabbrividire i loro eredi, nostalgici delle forme partito novecentesche). Così come una selezione della classe dirigente attraverso lo strumento delle primarie aperte a tutti, del Partito Democratico. O i sondaggi via internet per decidere la linea del Movimento Cinque Stelle. People have the power, insomma. Come cantava Patti Smith, nella canzone con cui Matteo Renzi chiudeva i suoi comizi nella campagna referendaria (persa) del 4 dicembre 2016.

People have the power, insomma. Come cantava Patti Smith, nella canzone con cui Matteo Renzi chiudeva i suoi comizi nella campagna referendaria (persa) del 4 dicembre 2016. Insomma, per l’appunto. Perché di quel potere, che appare così dirompente nella narrazione rivoluzionaria, rimane ben poco, tra le mani del popolo

Insomma, per l’appunto. Perché di quel potere, che appare così dirompente nella narrazione rivoluzionaria, rimane ben poco, tra le mani del popolo.

Uno: non è vero che l’informazione è nelle nostre mani. Non se è l’algoritmo di una gigantesca impresa privata che decide che articoli o che post io debba leggere, in funzione delle mie pregresse opinioni.

Due: non è vero che la politica è nelle nostre mani. Non fosse altro per il fatto che ai grandi partiti si sono sostituiti i grandi leader iconici, ognuno dei quali portatore di uno storytelling figlio della propria storia personale, da Obama a Renzi, da Macron a Corbyn.

Tre: non è vero che il potere è nelle nostre mani. E forse qui l’esempio è fin troppo semplice, con Donald Trump, candidato dei perdenti della crisi e della retroamerica rurale e post-industriale che fa del suo esecutivo un allegra combriccola di miliardari e finanzieri amici suoi. Quel che la disintermediazione dà, la disntermediazione toglie. Provate a pensarci, a il progressivo calo nel numero dei votanti e le paranoie complottiste - siamo potentissimi, possiamo fottere l’establishment, ma siamo governati da poteri occulti - non siano che il sottoprodotto di questa enorme contraddizione. Pesciolini rossi con la coda da squalo, come nella copertina del libro.

Ecco perché “Disinformazia” è un libro profondamente politico. Perché è un manuale d’istruzioni per orientare le classi dirigenti in un medioevo digitale e ostile dove il popolo è in possesso delle armi per sfogare la sua rabbia contro le élite o presunte tali - per ora solo quelle verbali dei vaffanculo e dei commenti su Facebook -, ma non ha quelle per prendere il loro posto. E perché, pur affermando la necessità di una leadership carismatica, ne certifica la non sufficienza, richiamando concetti antichi - ottocenteschi, più che novecenteschi - di comunità, cooperazione, empatia. Una domanda rimane sullo sfondo: basta una storia raccontata bene, per riannodare i fili della fiducia, per uscire da questa trappola della social-politica in cui ci siamo infilati? O forse serve qualcosa di più affinché, l’Io di iPhone e il Tu di YouTube diventino un Noi? E che cos’è quel qualcosa in più? Come si usava dire nel Novecento, il dibattito è aperto.