L’università ha un problema di genere

Categoria: Cultura

Squilibri diffusi in tante discipline. Cosa fa l’accademia italiana

07.09.17 Mauro Sylos Labini da www.lavoce.info

3 Commenti

Una tesi di laurea ha acceso i riflettori sul circolo vizioso fra stereotipi e squilibri di genere nei dipartimenti di economia. Due università italiane hanno affrontato il problema, modificando le regole di reclutamento. Ma attenzione ai passi falsi.

Squilibri diffusi in tante discipline

La tesi di laurea di una ventiduenne ha acceso i riflettori dei media internazionali sugli squilibri di genere nei dipartimenti di economia. Con una strategia innovativa, Alice Wu ha misurato la presenza di stereotipi sessisti in un blog molto seguito da studenti e professori. Gli esiti sono sconfortanti: le parole che più ricorrono nelle discussioni che riguardano le donne hanno un alto tasso di volgarità. E sono molto diverse da quelle più frequenti nelle discussioni relative agli uomini che, con qualche eccezione, fanno riferimento alle loro capacità professionali.

Un blog, peraltro noto per essere politicamente scorretto, non rappresenta la comunità accademica. Ma i risultati segnalano un possibile circolo vizioso fra la scarsa presenza femminile e la diffusione di atteggiamenti che, persino se minoritari, possono influenzare negativamente le scelte di carriera delle donne.

Gli squilibri di genere sono la norma anche in altre discipline scientifiche. Non ci sono dubbi sull’importanza delle attitudini culturali e delle aspettative: sin dall’infanzia, maschi e femmine hanno atteggiamenti diversi nei confronti di carriere e competenze che richiedono l’uso della matematica. Rispetto a quanto accadeva in passato sembra invece che siano meno rilevanti le discriminazioni nelle selezioni di carriere, borse di studio e pubblicazioni.

Anche in Italia le donne sono sotto rappresentate, soprattutto nei ruoli di vertice e nelle discipline con più matematica. Fra i professori ordinari di ingegneria industriale e fisica sono il 9 e l’11 per cento. Basse anche le percentuali in economia (18 per cento) e matematica (19 per cento), mentre la presenza aumenta in sociologia (29 per cento), scienze biologiche (33 per cento) e discipline storiche (33 per cento).

Cosa fa l’accademia italiana

Un maggiore equilibrio di genere nelle discipline scientifiche può avere conseguenze positive sia sulle donne sia sulla società nel suo complesso. Per esempio, se più studentesse scegliessero di studiare ingegneria si ridurrebbero le differenze economiche fra generi. Inoltre, almeno in alcune circostanze, gruppi più eterogenei sono in grado di risolvere problemi in modo più efficace e sono quindi più innovativi.

Due importanti università hanno modificato i regolamenti relativi alle selezioni e alla composizione dei loro organi d’ateneo. La Scuola Normale di Pisa, in casi di pari merito accademico, dà la preferenza al candidato appartenente al genere in netta minoranza. Nella pratica, almeno secondo l’esperienza di chi scrive, difficilmente più candidati vengono valutati a pari merito. Ma la norma ha il pregio di esercitare una sorta di “moral suasion” sui commissari e di incoraggiare la partecipazione alle selezioni di giovani ricercatrici. Genera qualche perplessità, invece, il fatto che la “netta maggioranza” sia calcolata per fascia di docenza (associati e ordinari) e non per disciplina. Perché preferire donne in settori di ricerca dove non sono nettamente sottorappresentate?

Il Politecnico di Torino ha invece adottato le quote di genere sia nel consiglio di amministrazione sia nelle commissioni di concorso. Il giudizio sulle quote è spesso ideologico e non fa i conti con le evidenze disponibili. Uno studio recente (e ancora preliminare) suggerisce che in Italia le quote riservate alle donne nei cda delle imprese abbiano favorito un aumento del livello di istruzione e un generale ringiovanimento dei board aziendali. Un’altra ricerca indica che più donne in posizioni dirigenziali hanno un effetto positivo sull’andamento delle imprese italiane. Questi risultati positivi devono comunque essere estrapolati con cautela. Sia perché non sono in linea con quelli di studi (già pubblicati) condotti in altri paesi, sia perché le università sono organizzazioni diverse dalle imprese.

Più controverse sono invece le quote nelle commissioni di concorso. La misura comporterà un aggravio dei compiti amministrativi delle colleghe e può persino avere effetti negativi sul numero delle ricercatrici promosse. Non sempre, infatti, mette in moto meccanismi favorevoli per le donne. Per esempio, quando la valutazione è fatta a un livello disciplinare molto definito (come nel caso dei settori scientifico disciplinari), le quote non aumentano la probabilità che le candidate siano valutate da chi conosce meglio (e quindi sa valorizzare) gli argomenti delle loro ricerche. Più in generale, nelle valutazioni scientifiche è importante quello che i commissari sanno e conoscono e non il loro genere.

Commenti

Luca Ba 08/09/2017 alle 9:11 Rispondi

Non ho capito il senso dell'articolo, qualcuno punta una pistola alla testa ad ogni matricola donna per non farla iscrivere alle facoltà scientifiche? Non credo proprio in alcune facoltà sono la maggioranza (medicina) in altre l'assoluta maggioranza (psicologia) è ovvio che saranno più numerose le ricercatrici e le professoresse in questi ambiti. Non è che semplicemente molte donne non sono interessate a fare un determinato ciclo di studi? Direi che più importante del genere il problema attuale nelle università sia di classe sociale di provenienza ma questo ovviamente non interessa a nessuno.

Mauro 08/09/2017 alle 12:38 Rispondi

Gli squilibri di genere nei ruoli apicali dipendono in parte (come suggerisce lei) dalle scelte di studio e in parte dal fatto che (per diverse ragioni) la "tubatura perde". Le scelte di studio e la perdita della tubatura, a loro volta, dipendono molto da attitudini culturali e aspettative nei confronti di carriere e competenze che richiedono l'uso della matematica. Attitudini e aspettative che però non sono immodificabili.

Savino 07/09/2017 alle 14:24 Rispondi

L'università ha, anzitutto, un problema di classi sociali. Adesso, i professori universitari si auto-annoverano tra quelli che vanno a fare la fila alla Caritas, dimenticandosi dei concorsi truccati, dei nepotismi e delle prepotenze varie. Lo sciopero che stanno portando avanti è cosa assai grave ed eversiva per il sistema istituzionale e socio-economico di questo Paese. E' il colpo di grazia che viene dato alle giovani generazioni e a coloro i quali sono capaci e meritevoli, pur se non agiati. I nostri pessimi ed autoreferenziali atenei non contribuiscono nè a risolvere la crisi nè a creare la futura classe dirigente. Auspico un intervento delle famiglie, che, pagando le cospicue rette, mantengono la baracca, per frenare le devianze e gli istinti zuzzerelloni dei professori universitari.