Il modello culturale da ius soli.

Categoria: Cultura

Deriva dai convincimenti del post comunismo e del cattolicesimo populista confluiti nel Pd. Posizioni spompate ma presenti in decisioni importanti

 di Gianfranco Morra, 18.10.2017 da www.italiaoggi.it

Che il discorso sulla concessione dello ius soli rifletta anche calcoli elettorali, soprattutto ora che siamo in vicinanza delle urne, è sin troppo ovvio.

La divisione tra il sì della sinistra e il no della destra è anche strumentale al voto. La sinistra vuole usarlo come una colla per unire i «compagni», la destra conosce i sondaggi, sa che la maggioranza degli italiani sono contrari e crescono ogni anno.

Ma le due facce della moneta ius soli mostrano molto di più di questo calcolo e riflettono due posizioni politiche tipiche della «sinistra» e della «destra»: categorie spesso spompate e confuse, ma ancora presenti nelle decisioni importanti. Come è quella dello ius soli, destinata a modificare profondamente e i valori e la convivenza del nostro paese.

Una delle due facce è l'utopia integralistica e internazionalistica: l'epoca delle nazioni, si dice, è finita, siamo già in un mondo multietnico, che lo sarà sempre di più. Occorre favorire tutti quei processi di meticciato che consentono una convivenza pacifica tra razze e culture diverse. Bisogna dunque accogliere tutti i migranti e favorire la loro integrazione concedendo la cittadinanza del luogo dove sono sbarcati. In tal modo quei miseri otterranno tutti i diritti e in cambio osserveranno tutti i doveri dei cittadini italiani.

È un progetto che traduce due antropologie forti e integralistiche, come quelle che si sono sposate nel Pd (anche se ora con qualche divorzio, ma non sullo ius soli): il post comunismo e il cattolicesimo populista. Uniti nel progetto (o mito che sia) della società multietnica per la loro scarsa considerazione della nazione e dello Stato. La vocazione del comunismo era universalistica, mirava alla unione dei proletari di tutto il mondo.

Quella cattolica è ecumenica. Non dovremmo dimenticare perché l'Italia ha avuto unità e Stato moderno con secoli di ritardo rispetto alle altre nazioni europee. E perché non ci siamo mai formati una forte coscienza nazionale e civile. In ciò, nonostante i cattolici liberali dell'Ottocento, ha certo avuto un peso anche la presenza della Chiesa cattolica, col suo ideale universalistico. Essa ha sempre più accentuato la sua vocazione ecumenica, soprattutto da quando i popoli occidentali si sono scristianizzati e la religione forte appartiene al terzo mondo.

Le due «chiese» del Pd, quella rossa e quella bianca, hanno opinioni diverse sui tempi della concessione. Quella «religiosa», soprattutto dietro lo stimolo del papa attuale, la vuole subito (pur di ottenerla si può, come del Rio, anche smettere di mangiare il parmigiano-reggiano), mentre quella «laica» per ora temporeggia. Ma tutti continuano a esaltarla come una conquista di civiltà.

Occorre scavare un po' a fondo per rendersi conto dei vari motivi che inducono il buonismo progressista a combattere per concedere lo jus soli ai migranti. Il motivo addotto (dare loro la cittadinanza per integrarli) è solo una delle due facce dell'operazione. Se per cittadinanza non intendiamo solo una concezione giuridica, ma una caratteristica antropologica e sociale di una nazione, la seconda faccia, ancora più forte della prima, si rivela come volontà di toglierla ai cittadini italiani. Nasce dalla convinzione che solo sacrificando la propria identità è possibile convivere con le culture diverse.

Essa ha le sue radici nel complesso masochistico di colpa con cui oggi gioca la cultura ancora egemone in Occidente. Prima c'era lo schema della guerra fredda (1945-1989): occidente = libertà, democrazia e progresso; oriente = collettivismo asiatico, totalitarismo, improduttività; terzo mondo = area in via di sviluppo verso la sua assimilazione non solo al benessere ma anche ai valori occidentali.

Il nuovo schema, nato con la caduta del comunismo, è la globalizzazione economica. Al trinomio inseparabile produzione-consumo-digitalizzazione si associa l'utopia degli Stati Uniti del Mondo: una ecumene indifferente alle tradizioni nazionali, unificate dal benessere crescente e dalla liberazione dai vincoli morali e religiosi del passato. Il relativismo dissolve le identità nazionali e il mito multietnico le confonde in una insalata mista deludente e indigesta.

La liturgia preliminare di questa nuova ecumene è la confessione delle colpe dell'Occidente nei confronti della altre culture, seguita da una richiesta di perdono da parte dei popoli troppo a lungo colonizzati: una «culture de l'excuse», come la chiama il giornale parigino «Figaro». Coloro che insistono sulla tradizione nazionale e sulla impermeabilità tra le culture, sulla creazione di «muri» e sulla negazione dello ius soli, non possono dunque che essere definiti «omofobi, nazionalisti, fascisti, razzisti». Porte aperte, sempre e dovunque, a tutti. L'immigrazione, ha detto l'Onu (documento del 2001), è un bene, in quanto «sostituiva del calo della popolazione» dell'Occidente.

Oggi di questo sfacelo non pochi si rendono conto. Del resto la rivoluzione del surrealismo (sposata con quella del marxismo) lo aveva proposto un secolo fa: «Rovineremo questa civiltà. Mondo occidentale, sei condannato a morte. Noi siamo i disfattisti dell'Europa» (Louis Aragon, Conferenza di Madrid, 1925). Una malattia diagnosticata anche da Prezzolini: «L'esotismo è segno di decadenza: per mostrare l'apertura della mente si adottano i costumi degli altri popoli e per confermare la propria religione si accetta quella degli altri» (Manifesto dei conservatori, 1972).

Una diagnosi descritta in un altro più recente Manifesto dei conservatori: «Viviamo nell'ambiente amorfo e multiculturale della città postmoderna e dobbiamo aprire i nostri cuori e le nostre menti a tutte le culture, senza abbracciarne alcuna» (Roger Scruton, 2007).

E, soprattutto, cancellando la nostra.

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