Rifare una classe dirigente 2 puntata

Categoria: Cultura

Il binomio tra democrazia ed economia di mercato funziona se la mobilità sociale è viva e lotta insieme a noi. Oggi c’è un ceto governante arcigno da rivoluzionare

di Antonio Funiciello Luglio 2018 da www.ilfoglio.it  

Il dibattito sui vaccini è in tal senso un esempio perfetto. Non siamo passati dai primi tentativi di vaiolizzazione della fine del Settecento alla vaccinazione di massa antipolio della seconda metà del Novecento, insultando i malati o le loro famiglie. La diffidenza dei non istruiti verso la sperimentazione scientifica è un atteggiamento naturale. Non lo abbiamo in passato superato imponendo con presunzione il punto di vista intellettuale. Ma con lente e appassionate campagne di informazione e comunicazione, espressione di politiche gradualiste di governi nazionali e organizzazioni sovranazionali. Per quanto possa apparire assurdo, ma appare tale solo a chi ha un’idea bislacca della democrazia, con l’informazione e la persuasione abbiamo costruito consenso intorno alle politiche di vaccinazione di massa. Come se si trattasse di costruire consenso tra i contadini per una riforma agraria. E così dovremmo continuare a fare, nella migliore tradizione occidentale.

Ovvio che diffondere conoscenza, piuttosto che spocchia intellettuale, comporta il rischio che coloro che acquisiscono conoscenza pretendano poi di insidiare le posizioni della classe dirigente. Ma è proprio la possibilità che chi oggi fa parte della minoranza governante, se sprovvisto di talento, possa discendere al grado di maggioranza governata, che rende la relazione tra minoranza e maggioranza più quieta ed equilibrata. Come la speculare possibilità di ascendere al ruolo di minoranza governante per chi è nato e cresciuto nel perimetro ampio della maggioranza governata.

Scegliere i medici tra i figli dei medici

Qualche settimana fa Matthew Stewart, sull’Atlantic, ha raccontato come il sogno americano sia diventato un incubo. In particolare negli anni di Bush figlio e ancora di più negli anni di quel mito del progressismo mondiale che è Barack Obama, negli Stati Uniti le diseguaglianze di reddito e di conoscenza sono letteralmente esplose. Privilegi di classe e diseguaglianze sono diventati ereditari. Scrive Stewart: “La classe meritocratica ha imparato il vecchio trucco di consolidare la ricchezza e trasmettere i privilegi ai nostri figli a spesa dei figli degli altri. Noi non siamo gente che passa di lì per caso e vede crescere la concentrazione della ricchezza. Noi siamo i principali complici di un processo che sta lentamente strangolando l’economia, destabilizzando la politica americana ed erodendo la democrazia”.

La tesi di Stewart non demonizza il merito in quanto tale. Il problema è un altro. Per stare nello schema della fortunata diade di meriti e bisogni di Claudio Martelli, è come se la politica abbia sostituito i bisogni con i meriti. Chi è più in buona fede ha pensato, insomma, che puntare sui meriti avrebbe prodotto una crescita economica tale da poter essere usata, dopo che essa si fosse determinata, in favore dei bisogni. Ma sono sorti due problemi. Il primo di metodo: l’azione di governo o è simultanea e sintetica nei riguardi della diade meriti/bisogni o finisce, per forza di cose, per creare squilibrio sociale. Il secondo di contesto: la globalizzazione, sbilanciando la crescita in favore delle aree non occidentali del pianeta, non ha suscitato una crescita economica in occidente sufficientemente elevata per porre rimedio ai bisogni, dopo aver sublimato i meriti.

Stewart segnala un ulteriore drammatico problema. Negli Stati Uniti (e nel resto delle democrazie avanzate d’occidente) è nata una nuova aristocrazia. Non composta da quello 0,1 per cento più ricco a spese del 90 per cento della popolazione variamente più disagiata. Ma da un 9,9% di popolazione che ama definirsi ceto medio e, in realtà, ha assunto un ruolo di classe dirigente più arcigno e più egocentrico di quello assunto dal famigerato 0,1. Un 9,9 molto più impegnato dello 0,1 a immobilizzare e fossilizzare la dinamica tra minoranza governante e maggioranza governata: “Siamo gente ben educata che veste abiti di flanella: avvocati, medici, dentisti, piccoli banchieri d’affari, alti funzionari di Stato, professionisti d’ogni genere – il tipo di gente che s’invita a cena. Siamo così schivi da negare la nostra esistenza. Continuiamo a ripetere che siamo il ceto medio”.

Questa nuova minoranza silenziosa è la classe dirigente dei nostri tempi. E’ una classe dirigente che ha con la propria specializzazione tecnica un rapporto orgiastico e incestuoso. Contro la massa governata intesa come insieme delle persone non particolarmente specializzate (Ortega y Gasset), la nuova minoranza governante oppone il dominio familistico del sapere tecnico-specialistico. Un sapere da trasmettere per via ereditaria ai propri figli come la casa di campagna. Un sapere a cui non fare accedere la grande maggioranza governata allo scopo di non insidiare la propria posizione di dominio.

Il cortocircuito è dietro l’angolo. Il binomio tra democrazia liberale ed economia di mercato funziona se la mobilità sociale è viva e lotta insieme a noi. Diversamente, la classe dirigente diviene sempre più improduttiva sul piano economico come su quello civile. Scegliere i medici tra i figli dei medici presenta, cioè, vari problemi. E’ chiaramente una di quelle cose che – da giovani – avremmo definito “un’ingiustizia sociale”. E in tal senso attenta alla liberalità stessa dei nostri regimi politici democratici. Tuttavia scegliere i medici tra i figli dei medici (e gli ingegneri tra i figli degli ingegneri…) produce anche un danno economico perché, restringendo il bacino di reclutamento, la società potrà contare su medici sempre meno capaci. Generalizzando, questo fenomeno di radicale introversione delle classi dirigenti non può che incattivire le masse governate che vedono bloccata ogni possibilità di vera ascesa sociale ed economica.

Classe dirigente e formazione

Forse il primo terreno su cui rinnovare le classi dirigenti occidentali è quello della formazione universitaria e postuniversitaria. L’Italia, in particolare, si trova in una situazione critica. I partiti politici non sono più organizzati come strumenti di formazione e selezione del ceto politico. L’unico apprendistato rimasto è quello dell’amministrazione locale. Ma non si dà classe dirigente nazionale per sommatoria di classi dirigenti locali. La classe dirigente, intesa nella sua interezza e non solo come classe politica, dovrebbe recuperare il gusto, oltre che l’obiettivo, di corroborare le proprie stanche energie aprendo alla minoranza governata i propri percorsi di formazione.

E’ un lavoro che dovrebbe riguardare un nuovo investimento di risorse e di fiducia collettiva nelle nostre università, soprattutto in quelle pubbliche, così di recente stupidamente bistrattate da quella propaganda che ha sostituito i meriti ai bisogni. Un lavoro che dovrebbe collegare sempre più in modo sistemico le università al mondo produttivo. A partire da fatti simbolici come la collocazione della delega di governo a più stretto contatto con quella dello sviluppo economico, che non con quella dell’istruzione di base.

Tuttavia il compito principale della classe o minoranza dirigente è quello di riconoscersi davvero come tale. Aprire se stessa, sin dai percorsi formativi, alla maggioranza governata è un postulato che va snocciolato anche in luoghi diversi dalle aule universitarie

Negli anni di quel mito del progressismo mondiale che è Barack Obama, negli Usa le diseguaglianze sono letteralmente esplose aule universitarie. La pressione delle grandi masse governate, insoddisfatte da come sono governate, può trovare sfogo costruttivo e rasserenamento sentimentale proprio nell’immissione nei percorsi formativi. Con un sistema dei partiti fragile e in via di trasformazione, un ruolo di supplenza nella formazione di una più inclusiva classe dirigente non può che venire anzitutto dal mondo dell’impresa. In Italia percorsi simili formativi specialistici già esistono. Quel che manca è la capacità di ripensarli e riformarli in un’ottica più generale. In anni come quelli che viviamo, anche un manager d’impresa dovrà saper collegare la propria conoscenza specialistica con la consapevolezza civica più generale del suo ruolo nella propria comunità di valori, interessi e bisogni.

L’obiettivo, oltre all’acquisizione di un sapere tecnico-specialistico, è la valorizzazione ideale e civile della formazione. Solo così potremo anche dinamizzare la società. In un contesto bloccato come il nostro, non è possibile dischiudere spazi senza mettere a rischio i privilegi ereditati. Se non si mettono a rischio, l’abilità della classe dirigente di dirigere davvero il sistema-paese (in Italia come altrove) avrà sempre meno respiro storico. E la pressione delle grandi masse governate finirà fatalmente per risultare irrazionalista e distruttiva. O si sblocca la nostra democrazia e la si rende socialmente fluida, o il sistema-paese sbanderà in modo ancora più evidente.

Un brillante meridionalista irpino, Guido Dorso, negli anni Quaranta ha offerto un’originalissima definizione di democrazia

L’antintellettualismo delle maggioranze governate verso le minoranze governanti è antico quanto la civiltà occidentale stessa diretta. Non condividendo il concetto in senso assoluto, nei suoi scritti metteva in guardia la democrazia rappresentativa dal chiudersi a riccio in stratificazioni sociali refrattarie a ogni movimento interclassista. Per Dorso la democrazia diretta era la forma storica della democrazia rappresentativa: “Un’organizzazione nella quale sia opposto il minor numero di ostacoli al duplice ricambio tra classe diretta e classe dirigente”. Dorso andava oltre. Riconosceva, infatti, nella forma di democrazia bloccata, della democrazia senza ricambio, lo schema storico-logico della decadenza di una civiltà e della rivoluzione. Thomas Jefferson, altro uomo del sud come Guido Dorso, vedeva nell’affermazione dell’aristocrazia delle virtù e dei talenti, contro l’aristocrazia delle ricchezze e dei privilegi, l’essenza stessa dell’identità americana e del progetto della nuova nazione. Oggi che i termini della dialettica cara a Jefferson si sono ribaltati, a partire dalla sua America, le classi dirigenti occidentali hanno perduto ogni capacità di visione complessiva dei fenomeni e sono tutte concentrate nel difendere l’intricato ordito di privilegi che hanno tessuto. Ma i forgotten man, come ai tempi di Roosevelt, suonano le loro trombe, bussano al portone della fortezza e hanno ormai i calli sulle nocche che da tempo battono il legno. L’eco dei colpi è sempre più fragoroso. I gangheri del portone cominciano a cedere.

2- Fine