La confusione morale

Categoria: Cultura

Ci vuole la faccia tosta e la tenera follia di Vichi Festa per raccontare la caduta della vecchia Repubblica dei partiti. Il libro perfetto per invertire i ruoli di buoni e cattivi alle scaturigini del caos a venire

di Giuliano Ferrara, 7.3.2019 www.ilfoglio.it

Ci vuole talento letterario. Ci vuole il coraggio sorridente di noi vecchi, sprezzatura e sprezzo del pericolo. Ci vuole faccia tosta. Ci vuole cultura. Ci vogliono cattiveria, ironia e delicatezza. Per fare che? Per raccontare la caduta della vecchia Repubblica dei partiti, la fine del Partito comunista italiano, puer robustus ac malitiosus, l’inabissamento di sindacati e sinistra politica, la nascita di una lunga stagione dell’immaginazione moralistica al potere: tutte cose che durano ancora negli effetti e che hanno la loro origine, prima dell’89 di Berlino, nel conflitto degli anni Ottanta fra cinici riformisti togliattiani e massimalisti etici. La guerra raccontata è tra la Milano da bere di Craxi, di Ligresti, di Berlusconi (con la partecipazione straordinaria di Enrico Cuccia, Roccia nel romanzo) e il vorace appetito di “trippa alla Bettino” di settori della procura e della polizia, con il grosso dei berlingueriani di Roma incistati nella “questione morale” e collegati a un establishment di rentiers di vecchio rango, banchieri conservatori e “di sistema”, puristi della Costituzione, estremisti e radicali arrembanti, cattolici solidali. La confusione morale (Sellerio, 374 pp., 14 euro) è il titolo perfetto, tra Flaubert e Simenon, di un romanzo giallo scritto da Lodovico Festa, Vichi, uno dei fondatori di questo giornale, per invertire i ruoli di buoni e cattivi alle scaturigini del caos a venire. Ma il futuro non c’è, perché è un cane che si morde la coda.

  

Siamo nell’ultima decade del novembre 1984, a Milano. Il sindaco è il socialista Tognoli (Bagnoli, il libro è parzialmente a chiave), il vicesindaco è il comunista Quercioli (Renaioli), il capo dei probiviri è un po’ Festa e un po’ no, ché l’Autore si tiene in sospetto e sollecita un giusto sospetto, comunque si chiama Mario Cavenaghi. Cavenaghi è tra i sapienti funzionari esteriormente anonimi, di loro brillanti e curiosi, di un partito orgogliosamente ma sornionamente sovietico, con moglie spiritosa e anticomunista, ma leale, e figli che disprezzano il gelato al limone e bramano la cioccolata. E’ incaricato di scoprire che cosa ci sia dietro l’assassinio di un dirigente del dipartimento di Urbanistica del comune, che minaccia di diventare uno scandalo portentoso e di travolgere la giunta unitaria di sinistra. Per tredici giorni, fino al 3 dicembre, Cavenaghi gira come una trottola per la città, si inoltra nel suo hinterland, prende decine di tram, bus metropolitane, va di abboccamento in abboccamento per una quantità di bar, di ristoranti, studi di architetti, uffici di amministratori, librerie, fa la spola con casa sua e con la federazione comunista e con Palazzo Marino, e la volontà di sapere cresce febbrile. Cresce non tanto in lui che intuisce malinconico il tramonto di un’epoca, quanto nel lettore del romanzo, imbambolato dal ritmo dei fatti e dal loro intreccio con le idee sulla politica, sul carattere delle maschere in teatro, sugli stupidi, i vanesi, i pavidi ominicchi e uomini e donne veri, sulla città, sulla tradizione comunista, sullo stato dello stato, inteso come apparato della forza; e si resta avvinti all’esito finale che sfugge a quel formidabile sondaggio del profondo e del dettaglio più superficiale, si sottrae a quel metodo implacabile che lo rincorre “per il bene della causa”.

    

Il conflitto tra realisti politici e moralisti pelosi ha per oggetto il Cazzaniga delle origini (Berlusconi), e sopra tutto il Crusca (Ligresti), sospettato di essere l’anello di congiunzione tra malaffare mafioso e Craxi, presidente del Consiglio e capo del “degenerato” sistema di potere milanese, bestia nera dei berlingueriani: e se fosse lui, il Crusca, il mandante dell’omicidio nel dipartimento di Urbanistica? E’ in corso una congiura, di cui l’omicidio è parte, e come sempre in questi casi se ne capisce il meccanismo soltanto alla fine del romanzo.

Da una parte stanno i dirigenti romani, i Pecchioli (Polli), i Minucci (Gatti), i Violante (Lorente), la Digos e i magistrati d’assalto; dall’altra i comunisti milanesi della maggioranza riformista, compreso da Roma un sapiente immoralista come Gian Carlo Pajetta (Regazzi), funzionari e funzionarie operai braccianti sindacalisti partigiani amministratori professionisti intellettuali architetti e belle architette, un mondo tutto insieme che ha trovato il suo severo, rigoroso, divertito ritrattista. Il nostro Cavenaghi sposta di qua e di là il suo 36 Quai des Orfèvres, mai gretteggia con stile e balzacheggia con ironia, e con l’aiuto di una indimenticabile Tullia degli Episcopi (il procuratore Beria d’Argentine) e di uno stendhaliano maggiore dei carabinieri (?) finisce per andare dove deve andare, con un’effimera e truce vittoria sul cattivo, che poi sarebbe il superbuono, il crociato morale professor Breganzi (?).

  

Anche come scrittore, Festa è un uomo d’ordine con un pizzico di tenera follia. Cronologia dell’intreccio, presentazione e sviluppo dei personaggi, senso e tempi del giallo, evocazione narrativa e paesaggio, atmosfere e gioioso dispiegamento della linea generale, passione e autocontrollo: tutto si tiene in uno stile da resoconto intimo e da flusso di coscienza pubblico che onora una letteratura che non c’è, a parte questa sua che però vende in libreria. In tutta la storia non si scopa mai, e Cavenaghi declina con eleganza e cortesia un invito all’adulterio, però per chi legge e ha amore per le storie e per la storia è garantito l’orgasmo.

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