“Il re leone” ruggisce in live action: dittatura e pluralismo a confronto

Categoria: Cultura

Tutti cercano ciò che possono prendere, un vero re si concentra su ciò che può dare.

Cinesalotto, blog Stefano Giani 21.8.2019 www.ilgiornale.it

C’era una volta Simba. Un cucciolo. Un bambino. Qualsiasi bambino. Un papà ucciso dal cattivo che, per inciso, è un parente. Un braccio di ferro tra bontà e cattiveria. Una trama che è inutile ripercorrere perché fin troppo nota e frequentata per essere ancora raccontata e ripetuta. La nuova versione de Il re leone, sempre targato Disney ma firmato da Jon Favreau, non si discosta in nulla dal precedente per la trama. Tutto rigorosamente fedele all’originale, senza voli pindarici né azzardi dell’ultim’ora. Solo la tecnologia si allontana dal cartoon del ’94, perché stavolta non si tratta di disegni animati ma di un film in live action, che riproduce panorami indimenticabili abitati dalle creature generate al computer. Il passo in avanti si ferma qui. La colonna sonora – arrangiata da Elton John – ricalca quella di un quarto di secolo fa, senza impennate né overdose di balletti e follie varie che avevano deturpato molti dei recenti titoli del listino Disney. La falsariga è piuttosto quella del Libro della giungla dove Baloo e Bagheera parlano. Alla stessa stregua di Mufasa, il perfido Scar e tutta la tribù di simpatici animaletti, che acquisiscono voci celebri da nazionalità a nazionalità. Chiwetel Ejiofor, Beyoncè, Billy Eichner in un cast vocale per gran parte nero nella stesura anglosassone. Edoardo Leo, Stefano Fresi, Marco Mengoni ed Elisa in quella italiana.

Eppure, il senso di questa cine favola è tutt’altro che sottovalutabile e c’è sempre una buona ragione per guardare e riguardare Il re leone. Soprattutto per farlo vedere – e magari spiegarne il significato – ai bambini, che si soffermano sull’aspetto superficiale e poetico del ben noto intreccio. Non solo il buono che vince sul cattivo ma una nuova instancabile e necessaria condanna della protervia e dell’arroganza, sfociate nel delitto familiare con il crudele Scar che uccide il mite Mufasa, una sorta di Caino e Abele in chiave di animazione. L’insidia insomma nasce in famiglia e spesso, nemmeno tra le mura amiche, ci si può sentire al riparo dai pericoli. Così il piccolo Simba impara a sue spese che cosa significhi la cattiveria ma soprattutto apprende che l’altro non ha mai il volto truce che talvolta gli si attribuisce, benché sia di specie diversa. Inoltre, il tema della resa. La peggior forma di assoggettamento alla prepotenza. Il sentiero è dunque tracciato e non resta che seguirlo. L’ambientazione animale rende più espliciti e chiari molti messaggi. In primo luogo quello relativo alle razze, tutte differenti e con proprie caratteristiche, che conducono al rischio e al timore di essere mangiati. Un paradosso, se applicato al regno umano, capace però di rendere con chiarezza un concetto che non intende toccare il razzismo, propriamente inteso, – in una società multirazziale come tende a diventare quella in cui viviamo – bensì semplicemente istinti, idee, colori e tendenze che contraddistinguono ogni vivente.

Infine, la parafrasi. Anche se potrà sembrare un azzardo, non appare eccessivamente forzato dire che Il re leone si presta a essere letto perfino in chiave politica. Se infatti il “regno” di Mufasa può venire liberamente interpretato come la società pluralista dove si vive in libertà, sono ammessi orientamenti contrari e critici e il dibattito raggiunge la dimensione del confronto, quello dominato da Scar assume i contorni di un clima che riporta alle buie tenebre della dittatura. La presenza delle iene – animali feliformi, dalla morfologia felina ma dal comportamento dei canidi – indica la morsa del cane da guardia che sorveglia e assale chi non si adegua né si sottomette all’autorità repressiva. A enfatizzare il contesto è la cupa atmosfera che fa da cornice a questa forma di governo, in contrasto alla luminosa ambientazione di una collettività in cui l’invidia e la protervia sono emarginate e rese inoffensive. La distinzione tra queste due prospettive si alterna anche nel corso del film e del viaggio di Simba. Lontano dalla savana natale, precipitata nelle angoscianti ombre della dittatura imposta dallo zio usurpatore – quanti riferimenti nella storia antica e moderna… – trova invece ospitalità e un’altruistica versione dell’amore che lo riconduce idealmente a una collettività felice e liberale. In fondo, anche una favola spensierata può rivelarsi fonte di insegnamento – e apprendimento – utile per i piccoli cinefili che crescono. E forse non solo per loro.