Meglio a casa. Siamo sicuri che il principale problema degli studenti italiani sia il lockdown?

Categoria: Cultura

Dall’imbuto di Norimberga della ministra Azzolina al processo di Agamben contro i professori che giurarono fedeltà al wi-fi: forse, più che per le lezioni perdute, dovremmo preoccuparci per le lezioni date

Francesco Cundari, 25.5.2020 linkiesta.it lettura 3’

Il dibattito sull’opportunità o meno di chiudere le scuole, e fino a quando, per non parlare di quello su come e quando effettuare i concorsi per i professori, rischia di oscurare il quadro più ampio dello stato e delle prospettive della pubblica istruzione nell’Italia di oggi. A cominciare dai suoi massimi vertici.

C’è ad esempio la ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, che invita a non considerare gli studenti «imbuti da riempire», offrendo così nuovo materiali ai già numerosi sostenitori di una sua segreta parentela con la famiglia Guzzanti, e poi spiega che si riferiva ovviamente al celebre imbuto di Norimberga, «metafora sull’apprendimento molto nota nel mondo della scuola».

Argomentazione appena più credibile di quella utilizzata dall’assessore lombardo Giulio Gallera per spiegare in un video, leggendo con qualche sforzo le definizioni trovate sul sito dell’Università di Padova, la sua bizzarra teoria sulla diffusione del contagio (quella secondo cui l’indice a 0,50 significa che «per infettare me bisogna trovare due persone nello stesso momento infette», mentre quando l’indice è a 1 vuol dire che ne basta una sola).

C’è poi la viceministra all’Istruzione, Anna Ascani, che propone di «regalare» agli studenti l’ultimo giorno di scuola, per salutarsi, naturalmente in sicurezza. Del resto, i gavettoni si sono sempre lanciati da due metri abbondanti. Ma probabilmente Ascani si immagina l’adolescente italiano come un incrocio tra lo studente dell’Attimo fuggente e l’orchestrale del Titanic, mentre saluta i compagni con un inchino appena accennato, dichiarando a bassa voce che è stato un onore studiare con loro.

Quanto al prossimo anno, c’è tempo. E comunque la ministra Azzolina ha assicurato che per il governo la scuola è una «priorità», dunque non c’è motivo di preoccuparsi («Stiamo cominciando a studiare come approcciare la ripresa dell’anno scolastico. Abbiamo qualche mese di tempo e certamente è un argomento sensibile», ha assicurato il commissario Domenico Arcuri, con invidiabile flemma).

C’è infine, e soprattutto, il brillante professore, lume e specchio della filosofia italiana nel mondo, Giorgio Agamben, secondo il quale «la cosiddetta pandemia» sarebbe stata usata «come pretesto per la diffusione sempre più pervasiva delle tecnologie digitali».

Dunque i professori che accettano di «sottoporsi alla nuova dittatura telematica e di tenere i loro corsi solamente on line sono il perfetto equivalente dei docenti universitari che nel 1931 giurarono fedeltà al regime fascista». Di conseguenza, come avvenne allora, «è probabile che solo quindici su mille si rifiuteranno, ma certamente i loro nomi saranno ricordati accanto a quelli dei quindici docenti che non giurarono».

Parole in cui alla narcisistica trasformazione delle proprie personali ossessioni in teoria generale dell’universo – vizio del resto non così raro anche tra i filosofi più grandi – si aggiunge, imperdonabilmente, l’oltraggio alla memoria storica.

Ma se questo dunque è il quadro generale – dall’imbuto di Norimberga della ministra Azzolina al processo di Agamben contro i professori che giurarono fedeltà al wi-fi – davvero non c’è bisogno di possedere né il rigore scientifico né il rigore morale di Vito Volterra, il grande matematico che fu tra i pochissimi a rifiutare il giuramento di fedeltà al fascismo, per concludere che, con simili professori, simili autorità e simili modelli, per i nostri studenti due o tre mesi a casa sono probabilmente il minore dei mali.