Vuoi l'Oscar? "Attori di colore e Lgbt!". Le nuove regole "sovietiche" dell'Academy

Categoria: Cultura

Le regole in vigore dal 2024 per omaggiare Black Lives Matter e la "diversità" nell'industria cinematografica

GIULIO MEOTTI 10 SET 2020 ilfoglio.it lettura3’

Ma con questi canoni, tanti grandi film dovrebbero restituire la statuetta

Roma. Alcune delle pellicole che in questi anni hanno vinto l’Oscar come miglior film, nel 2024 potrebbero essere chiamate a restituire l’ambita statuetta: “Il caso Spotlight”, “Il discorso del re”, “Non è un paese per vecchi”, “Il gladiatore”, “A beautiful mind”, “American Beauty”, “Titanic”, “Braveheart”, “Il paziente inglese”, “Il silenzio degli innocenti”, “Schindler’s List”… Questo per andare indietro solo agli anni Novanta. Non si salveranno certo “Ben Hur”, “Il cacciatore”, “Il Padrino”… Saranno forse chiamati a restituire l’Oscar non perché non lo meriteranno più, ma perché in quei film non ci sono protagonisti di colore, spesso neanche in ruoli secondari. Né ci sono quote riservate alla comunità Lgbt. Ovviamente non accadrà niente di tutto questo, anche se proprio il 2024 è l’anno che l’Academy of Motion Picture Arts and Sciences, che assegna gli Oscar, ha scelto per far entrare in vigore le nuove regole per candidarsi a miglior film. Registi e produttori hanno tutto il tempo per adeguarsi.

Un canone ideologico da seguire per poter essere anche solo fra i prescelti al titolo di miglior pellicola. Il film dovrà dunque soddisfare due dei quattro nuovi standard stabiliti, ha affermato l’Accademy, che corre ai ripari dopo le polemiche della campagna #OscarsSoWhite e Black Lives Matter.

La pellicola che vuole candidarsi a miglior film deve avere almeno un personaggio principale o un personaggio secondario significativo appartenente a “un gruppo razziale o etnico sottorappresentato”; almeno il trenta per cento dei ruoli secondari deve andare a due “gruppi sottorappresentati”; infine la trama principale o la narrazione devono essere focalizzate su un gruppo sottorappresentato. Per gruppi sottorappresentati si intendono donne, persone di colore, Lgbt o con disabilità. Le produzioni devono anche compilare dei “moduli di standard di inclusione”. In pratica “diversity” significa “niente maschi bianchi” (lo ha detto la candidata all’Oscar Charlotte Rampling). Peggio ancora se eterosessuali e cristiani. Il Los Angeles Times fa notare che “alcuni recenti candidati al miglior film con attori quasi esclusivamente bianchi e maschili – tra cui il film sulla Prima guerra mondiale ‘1917’ e l’epica gangster ‘The Irishman’ – potrebbero avere difficoltà a soddisfare i nuovi standard”. Per non parlare di “Joker”. E che ne facciamo di “Dunkirk”, “L’ora più buia” e “Hurt Locker”, grandi film di guerra che non passerebbero l’esame imposto dall’Academy che vuole trasformarsi in una sorta di Eurovision cinematografica? Poche, finora, le critiche dagli attori.

Kirstie Alley, che ha vinto un Emmy e un Globe, ha twittato che le regole di Hollywood sono “dittatoriali”. E ha aggiunto: “Questa è una vergogna per gli artisti di tutto il mondo… Puoi immaginare di dire a Picasso cosa doveva mettere nei suoi fottuti dipinti? Avete perso la testa”. Non supererebbero l’esame neanche film dal chiaro messaggio progressista, come “Le regole della casa del sidro”, candidato a sette statuette, compresa quella per il miglior film, pellicola pro aborto ma senza neanche l’ombra di un nero o un gay in ruoli decisivi. E che ne facciamo di “Cleopatra”, il film del 1963 reo di appropriazione culturale con la bianca Liz Taylor nei panni della regina egizia? E “Rocky”, questo simbolo della tanto esecrata “mascolinità bianca eterosessuale”?

E “La mia Africa”, con tutte quelle fantasie coloniali? E le nuove norme significherebbero forse che il primo film straniero a vincere la statuetta, “Parasite”, sarebbe interdetto perché in Corea del sud i coreani non sono una minoranza?

L’Academy con queste nuove norme segna il ritorno allo spirito dell’Agitprop sovietico, il “realismo socialista” dei film moscoviti, tutti educativi e didattici, in cui kolkoziani e giovani operai cantavano e ballavano con l’eroe positivo comunista sempre abbronzato, sempre felice, sempre muscoloso, sempre ligio ai diktat del Partito. Quando gli fu chiesto un’opinione, lo scrittore sovietico Ilja Ehrenburg rispose: “Il realismo socialista? Nessuno sa dire cosa sia. Forse è ciò che piace alla cricca che difende il proprio posto e che domina ancora”. Anche a Hollywood, forse, hanno paura di essere travolti dalla “giustizia sociale”.