Il senso della fatica di vivere. Nessun uomo viene al mondo solo per morire

Categoria: Cultura

Il Covid potrebbe diventare un buon pretesto per riprendere a parlare della vita e della morte, della salute e della malattia, della libertà e della necessità

ALFONSO BERARDINELLI 12.12. 2020 ilfoglio.it lett.6’

Guardandolo dalla luna, questo coronavirus che ha già rubato e continua a rubare la vita a molti, apprestandosi a rubarci anche il Natale, potrebbe diventare un buon pretesto per riprendere a parlare della vita e della morte, della salute e della malattia, della libertà e della necessità. Tutti temi che a me, forse perché non ho ancora superato il trauma liceale del secondo principio della termodinamica, fanno sempre venire in mente l’entropia, il disordine che necessariamente si produce in un qualsiasi sistema fisico o nell’intero universo ogni volta che si passa da uno stato ordinato a uno disordinato e, a maggior ragione, viceversa. L’esempio che faceva il mio vecchio professore per spiegare questo concetto era quello di una goccia d’inchiostro, la quale, versata in un bicchiere d’acqua, spontaneamente si espande, dando vita a uno stato del tutto disordinato. Come non pensare al coronavirus? Volendo, si potrebbe anche separare di nuovo l’acqua dall’inchiostro, ma questo, ossia il ripristino dell’ordine originario, richiederebbe un dispendio di energia ancora maggiore, quindi un aumento del disordine, ovvero dell’entropia. Il lockdown?

Un po’ come con quello che è stato definito “il principio di conservazione dello sporco”, secondo il quale non si può pulire nulla senza sporcare qualcos’altro, succede che ogni trasformazione di un qualsiasi sistema produce necessariamente un aumento del disordine complessivo dell’ambiente in cui il sistema è inserito. In estrema sintesi, si potrebbe dire anche così: siccome nell’universo fisico tutto si muove e muta (nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma, recita il primo principio della termodinamica), tale mutamento, a maggior ragione se esso tende a creare o ricreare strutture ordinate, produce inevitabilmente un aumento generale dell’entropia, una dispersione non reversibile di energia, la quale, magari tra qualche milione di anni, condurrà inevitabilmente alla morte dell’universo.

La prospettiva sembra invero poco incoraggiante. Forse sto prendendo le cose un po’ troppo da lontano. Eppure secondo me il coronavirus c’entra. Prima o poi, dicevamo, l’entropia annienterà tutto. In un tempo sufficientemente lungo (e il mondo fisico di tempo ne ha in abbondanza), possiamo star certi che nulla di ciò che adesso abbiamo intorno resterà così come è. Le colline che vediamo dalla finestra lasceranno forse il posto di nuovo al mare; non resterà traccia della nostra casa, né della basilica di San Pietro; quanto alla vita degli uomini, la nostra vita, sappiamo bene che essa è poco più di un soffio. E siccome prima o poi moriamo tutti, potrebbe essere insensato sacrificare tutto per la nostra salute. L’autoconservazione non è necessariamente il fine supremo della nostra vita. Ma proprio perché, prima o poi la fine arriverà, bisogna resistere, non rassegnarsi, fare di tutto per procrastinarla. Non esiste un’aritmetica per misurare quanto e come dobbiamo resistere. Forse con il lockdown contro il coronavirus abbiamo esagerato, forse no. In ogni caso tentare di procrastinare la fine non è mai insensato, non è mai una battaglia contro i mulini a vento.

La cultura greca ha elaborato due risposte a questo problema: la prima è quella di Anassimandro, secondo la quale, prima o poi, tutte le cose torneranno finalmente donde sono venute, espiando in questo modo tutti i loro limiti, anzi, le “colpe”, per essere venute al mondo. La vita è violenza; ciò che vive lo fa sempre a spese di qualcos’altro; qualsiasi forma d’ordine produce disordine intorno a sé; non resta dunque che espiare la colpa di essere nati: una sorta di entropia provvidenziale: la fine di tutto come il fine a cui tutto tende. La seconda risposta è invece quella platonica, la quale, pur consapevole del fatto che anche le cose più belle, più buone e più virtuose sono destinate prima o poi a scomparire, a cadere sotto i colpi della necessità (ananke), mostra tuttavia come la loro lucentezza, la lucentezza del bello, del buono e del giusto, resti eternamente, senza essere minimamente scalfita dal loro tramonto: la fine di tutto non coincide con il fine a cui tutto tende.

Come ha mostrato da par suo Robert Spaemann, l’escatologia cristiana produrrà una sorta di combinazione di queste due prospettive. Un po’ come in Anassimandro, anche nel cristianesimo la morte, la fine di tutto rappresenta una sorta di penitenza per una “colpa” commessa all’inizio. Ma la morte non rappresenta l’ultima parola, poiché la risurrezione di Cristo l’ha già sconfitta da sempre e per sempre. Il massimo di entropia, la fine del mondo, ben lungi dal rappresentare la fine di tutto, rappresenta piuttosto l’avvento definitivo della “Gerusalemme celeste”, dove Dio mostrerà la sua onnipotenza e il suo potere di “far nuove tutte le cose”. Non la morte, ma la vita, la vita buona, bella e giusta ha dunque l’ultima parola: questa la sostanza della speranza cristiana, il senso del Natale cristiano, al cospetto del quale ananke, la necessità, traballa, mostrando tutte le sue crepe. Manca un po’ il respiro, ma di questo si tratta. Il fatto che dobbiamo inevitabilmente morire non significa che le nostre azioni siano indifferenti; il velo tragico che avvolgeva il mondo greco viene come squarciato; e gli uomini vengono chiamati a fare il “bene”, anche a rischio della morte, anche a rischio di far crescere l’entropia, poiché questo è l’unico modo veramente umano per “dare molto frutto” e per non morire mai. In questa prospettiva, è evidente che la salute, la mera sopravvivenza fisica non possono più essere considerate come il valore sommo; posso sacrificare la mia vita per qualcosa di più alto. Ma mai potrò sacrificare la vita di un altro o pretendere che l’altro rinunci alla sua sopravvivenza.

Albert Camus, uno che di tragedie e di assurdità se ne intendeva, ha scritto che “dobbiamo immaginarci Sisifo felice”. Ma non può esserci felicità in una vita dominata dalla necessità, in una vita dove siamo costretti a ripetere sempre la stessa azione. Una vita del genere sarebbe soltanto una condanna; “assurdo” pensare che in essa possa trovar posto la felicità. Felice può essere la fatica di una madre che ogni giorno ripete gli stessi gesti per accudire suo figlio o per tenere in ordine la casa; felice può essere la fatica di un medico o di un infermiere che fanno con dedizione il loro dovere anche a rischio della vita, non la fatica di Sisifo che deve ogni volta riportare in alto la sua pietra. Nessuna struttura di vita buona si afferma e si mantiene senza sforzo, senza una lotta continua col disordine e col caos: questo è indubbio e lo sanno tutti coloro che lavorano e lottano per qualcosa: le madri e i padri di famiglia, i medici e gli infermieri, al pari degli artisti o dei governanti (quando sono buoni). Ma, proprio per questo, occorre uscire dall’orizzonte tragico della necessità e dare un senso anche allo sforzo e alla fatica. La realtà è quella che è, segnata dal dolore e dalla morte, ma nessun uomo viene al mondo semplicemente per morire. Se così fosse, sarebbe il trionfo dell’entropia. Invece, direbbe Hannah Arendt, veniamo al mondo per incominciare, per generare forme di vita individuali, sociali e politiche capaci di procrastinare la fine che costantemente incombe su tutti noi e su tutto ciò che ci circonda. Guai ad assecondare questa fine. Non curare un vecchio perché tanto gli resta poco da vivere è come non lavare i piatti su cui abbiamo appena mangiato, perché tanto domani li sporcheremo di nuovo. Sono entrambi segni di trascuratezza (criminale nel primo caso), non di realismo. Il quale realismo, per gli uomini, non consiste nell’assecondare il caos, il disordine o l’entropia, quanto piuttosto nel cercare sempre il “bene possibile” in un mondo segnato dal caos, dal disordine e dall’entropia.

Non una fatica di Sisifo, dunque, e nemmeno la pretesa di realizzare un mondo perfetto dove non ci siano più fatica, né morte, ma solo la ferma determinazione a tenere in scacco, più a lungo e nel modo migliore possibile, la fine che necessariamente arriverà: questo è realismo. Certo, anche le persone migliori o le forme socio-politiche migliori alla fine moriranno, ma proprio la loro vita sta a testimoniare un senso, un fine, che non coincide con la loro fine. La bellezza, la bontà, la giustizia di ciò che avremo saputo realizzare sopravvivranno alla caducità delle nostre povere vite e della vita dell’intero universo. Buon Natale, dunque. Alla faccia del coronavirus.