La tradizione del "porzhel de Sant'Antoni", il maiale allevato da tutto il paese per nutrire le famiglie più povere

protettore degli animali domestici e del bestiame, del lavoro del contadino e di altri mestieri affini, o derivati, dell'attività agricola

domenica 17 gennaio Cristiana Sparvoli © Qdpnews.it).

la Chiesa celebra Sant’Antonio abate, precursore dell’ascetismo monastico cristiano (Coma, Qumans, Egitto 250/251 d.C. - deserto della Tebaide 17 gennaio 356/357 d.C.), protettore degli animali domestici e del bestiame, del lavoro del contadino e di altri mestieri affini, o derivati, dell'attività agricola.

Mestieri in cui sono compresi macellai, norcini, fornai, pizzicagnoli, salumieri, tosatori, canestrai. Inoltre l'abate è patrono del fuoco, delle malattie della pelle e persino dei becchini. In questa festività è consuetudine, diffusa in tutta Italia, benedire all'esterno delle chiese gli animali domestici e da lavoro (nonchè i veicoli), ma nell'era del Covid il rito è stato sospeso.

La devozione di Sant'Antonio Abate è molto sentita. Nella classica iconografia sacra il santo abate è rappresentato con un roseo maialino al seguito. Popolarmente la presenza della "bestia" è interpretata come l’immagine del diavolo (a cui anticamente si associava il porco, creatura degli inferi), che venne sconfitto dall’eremita Antonio.

Nella civiltà contadina trevigiana, soprattutto nelle terre della Sinistra Piave, era diffusa la tradizione del porzèl de Sant'Antoni. In alcuni paesi un generoso donatore, nella ricorrenza del 17 gennaio, offriva alla collettività un lattonzolo o un piccolo maialino, che nel corso di tutto l'anno era libero di girare per le case e le aie.

Tutti gli davano cibo per nutrirlo a volontà. Quando era giunto il momento di macellarlo, una volta raggiunto il giusto peso, le sue carni venivano distribuite tra le famiglie più povere del paese, ma qualche buon boccone era destinato anche al parroco.

Nel volume "Ricettario Trevigiano. Memorie di cucina e tradizioni di una comunità" (Veneto Comunucazione), si riporta che a Vazzola qualche anziano ancora ricorda che in passato, nel mese di settembre, veniva organizzata la "pesca" ed il primo premio consisteva proprio in un piccolo suino. Chi lo vinceva poteva decidere di allevarlo, per ingrassarlo e trarne carne e insaccati, oppure venderlo.

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Nemmeno Sant'Antonio Abate, protettore degli animali, poteva evitare che il maiale venisse “sacrificato” sull’altare dell’alimentazione umana. Nella Marca Trevigiana il maiale per secoli ha avuto una parte rilevante nell'alimentazione, in particolare tra le genti delle campagne.

Di lui si utilizzava tutto, come ben sapevano i norcini (chiamati anche "becheri"), di cui oggi ricorre la festa patronale. Del porco si facevano tante parti: luganeghe, martondele, braciole, salami, soppresse (l'insaccato più pregiato, anche col cuor di filetto di maiale), ossocolli, musetti, codeghini, bondiole e i baldoni preparati con il sangue di maiale ancora fluido, latte e farina (al giorno d'oggi non più proponibile).

Nel borgo di Chiesuola, a Falzè di Piave, si trova l'antico oratorio intitolato a Sant'Antonio abate. Questo edificio sacro è legato all'antica usanza del porzhel de Sant'Antoni, riesumata da Claudio Breda nel suo libro di storia locale "I Fire da Falzè": "Il maiale era un bene comune e patrimonio di tutti cui si doveva rispetto attenzione e difesa al fine poi di un ristoro, il 17 gennaio, per la comunità tutta".

L'autore ricorda che, fino agli anni '50 del ventesimo secolo, nel giorno sacro di Sant'Antonio abate "non si potevano macellare animali e men che meno il maiale, anzi si doveva provvedere perchè mangiasse bene, e il rimedio alle loro malattie era il sale, che veniva benedetto durante il vespero e sparso nel fieno e in altri alimenti per dar loro sapore".

Per nutrire il maiale della comunità, protetto dal santo abate, un questuante andava di casa in casa a chiedere gli avanzi da dare all'animale, che poi veniva messo in palio per la lotteria della sagra de Sant'Antoni.

Il vincitore si assicurava carni succulente per un buon periodo, ma una coscia doveva essere riservata ai più poveri del paese, che la gustavano in un pasto collettivo. Da qui il detto che girava tra gli abitanti di Falzè: "Toni, Toni, quala ela la gamba de Sant'Antoni?".

(Fonte: Cristiana Sparvoli © Qdpnews.it).

(Foto: archivio Qdpnews.it).

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