COSA NON BERRESTI PIÙ? Quei vini amati passati di moda

Categoria: Cultura

Non è più il tempo delle bottiglie pompose, dell’eccesso di legno, di profumo, di alcol, di prezzo. Siamo transitati dalla pesantezza alla grazia. Lista ragionata delle etichette divenute obsolete

CAMILLO LANGONE 20-2- 2021 ilfoglio.it lett8’

Gli italiani si mangiano il fegato. Il "quinto quarto" entra nel paniere Istat

Mi dici un vino che in passato ti piaceva e che oggi non berresti più?

Ho rivolto questa domanda a un tot di esperti dopo avere sfogliato con un certo sgomento la mia vecchia collezione di etichette, prova dei miei peccati enologici degli anni Novanta e pure, in qualche caso, dei primi anni Zero. Tutto scorre, ho pensato insieme a Eraclito, finanche nella cantina di chi come me si considera poco sensibile alle mode (ma del tutto impermeabile è impossibile e forse pure sbagliato). Figuriamoci nelle altre. Insieme a Villon mi sono chiesto: dove sono le bottiglie dell’altro millennio? Per aiutarmi a scrivere una carta completa dei vini obsoleti ho interpellato parecchi specialisti e altri che non lo sono e però dei movimenti del bicchiere sono osservatori attenti, magari in quanto romanzieri.

L’età media è altina perché un venticinquenne le grandi oscillazioni del gusto non ha fatto in tempo a viverle, però non mancano i trentenni per registrare le mutazioni vitivinicole più recenti. Francesca Romana Barberini non beve più i vini barricati che andavano per la maggiore tempo addietro: “Troppo legno”. Lo dico subito, il rigetto per quelli che Davide Paolini nel 1986 battezzò genialmente “vini del falegname” ricorre in tante risposte. Come in quella assai circostanziata di Guido Barendson: “Credo che il Cervaro della Sala ben rappresenti l’epoca in cui molti di noi erano attratti dai vini affinati in barrique. Parliamo di una trentina di anni fa. Una tipologia che mi affascinava al punto di farmi litigare con quell’elegante palato che era mio suocero...”. Camilla Baresani, nei cui romanzi si è stappato molto Amarone, riconosce candidamente le iniziali ingenuità: “Da adolescente e ragazza ho subito tutte le mode. Prima c’era il Beaujolais, poi il Mateus, poi il Galestro capsula viola, poi l’Arneis Ceretto... Sembra passato un secolo”.

Cinzia Benzi castiga una mia bestia nera, la bottiglia d’imitazione, il Bordeaux fatto in Toscana: “Ho avuto il momento in cui potevo essere incuriosita dai Super Tuscan ma è stata un’infatuazione passeggera”. Romolo Bugaro che in La buona e brava gente della nazion” (gran titolo) faceva bere ai suoi personaggi Bianco di Custoza, Corvo Bianco, Malvasia di Lipari, personalmente ordinava Gewürztraminer: “Era il mio preferito: pieno, fruttato, profumato. Col tempo però ho cominciato a sentire il troppo di quel vino e l’ho mollato”. Giacomo Bullo dell’Alma di Colorno, nonostante sia il più giovane della comitiva (classe 1991), ha vissuto la parabola di un vino che insieme al momento magico ha perso perfino il nome, sto parlando del Tocai: “Quando ancora lo si poteva nominare così, sembrava imperituro sulla tavola di famiglia: mandorle e fresca aromaticità a non finire. Adesso anche meno!”.

Carlo Cambi, inventore di Mangiarozzo e dunque paladino delle trattorie di sostanza, non poteva certo continuare a bere vini effeminati, profumati: “Tra i bianchi ho messo da parte tutti gli aromatici: non mi va più di bere cose che mi impediscono di esaltare l’incontro col cibo”. Gaetano Cappelli, che ha portato l’Aglianico del Vulture nella narrativa italiana, oggi è critico verso i rossi grevi, non berrebbe più “l’Amarone e tutti quei vini marmellatosi e quindi, sì, perfino qualche Aglianico!”. Armando Castagno conferma, involontariamente, una delle mie regole di vita: “Qualora obbligati con la forza a bere Chardonnay, si beve Chardonnay di Borgogna. Nemmeno della Champagne: solo di Borgogna”. L’autore di Borgogna. Le vigne della Côte d’Or ha smesso di apprezzare “gli Chardonnay storici del nord Italia, dal Giarone di Poderi Bertelli al Cuvée Bois di Les Crêtes passando per quasi tutti i pari tipologia friulani e altoatesini. Li trovo pesanti, ridondanti, e della loro componente legnosa un tempo mettevo a fuoco la parte fragrante e aromatica, oggi la forza disseccante e l’artificiosità”.

 

Marco Ceschi di Signorvino ha voltato le spalle a un altro vino da naso, al Sauvignon Ronco delle Mele di Venica: “Quella forza e intensità aromatica tipica del Sauvignon a cui si univa la ricca morbidezza delle terre del Collio, era una cosa esplosiva. Poi bere Sauvignon blanc nei primi anni Duemila faceva anche figo. Oggi non credo riuscirei a berne più di un calice”. Luigi Cremona, il cui palato fra gli addetti ai lavori è leggendario, ha virato dai “vini strong californiani (lo Screaming Eagle era il mio preferito), a vini più bevibili, meno alcolici, più eleganti”. Andrea Cuomo del Giornale sanziona ulteriormente il già citato bianco altoatesino, o sudtirolese che dir si voglia: “Il Gewürztraminer una ventina di anni fa era un vino di moda del quale si scambiava l’aromaticità spiccata per facilità di beva. Nel frattempo ho preso in uggia quella dolcezza spesso poco misurata che i produttori insistono nel definire ‘mai stucchevole’”.

Pierangelo Dacrema ha archiviato quello che Luigi Veronelli, penna insuperabile e palato opinabile, definì nel 1979 “il Mennea dei vini italiani” ovvero il Vintage Tunina di Jermann: “Una trentina d’anni fa, forse anche una quarantina, lo bevevo con piacere e con la sensazione di provare qualcosa di nuovo...”. Alain Elkann col nonno beveva Grignolino annacquato e con Moravia il ben più forte Bloody Mary: venendo ai vini bianchi mi dice che non gli piacciono più Sancerre e Falanghina. Molto giustamente, penso io, siccome il primo è un Sauvignon e come tale a rischio nausea e la seconda trova nella medesima Campania alternative assai migliori. Aldo Fiordelli pur essendo un fiorentino teorico della bistecca fiorentina (ci ha scritto un libro) addita un problema piemontese: “La Barbera che oggi si fatica a trovare sotto i 15 gradi e diventa pesante da bersi. Però non è solo il mio gusto a essere maturato, sono anche il clima, l’enologia e il mercato ad aver cambiato, in qualche caso stravolto, lo stile di certi vini”.

Marco Gatti non berrebbe più il Nero d’Avola “che una decina d’anni fa ha dilagato nelle carte dei vini e nelle enoteche, soppiantando rossi di ben più nobile lignaggio, arrivando addirittura a esser richiesto dalle sciure della Milano-bene quale calice dell’aperitivo”. Andrea Grignaffini fa un’affermazione solitaria, in ammirevole controtendenza: “Mi piacevano moltissimo i vini taglienti come lame (dai Sorbara agli Champagne passando per i vari Crémant) ma nell’ultimo lustro se l’acidità se non è sorretta dal frutto mi disturba un po’”. A questo punto l’ordine alfabetico prevede il sottoscritto ed è il momento di ammettere che nella vecchia collezione di etichette ho trovato un mucchio di vini toscani, perfino dei Morellino di Scansano. Che oggi berrei soltanto a Scansano. Cristiana Lauro ha inventato il “metodo easywine” (vedi libro edito da Pendragon) e coerentemente non approva le complicazioni enologiche: “Alla fine degli anni Novanta mi piacevano gli Amarone. Oggi non li bevo molto volentieri per via della tecnica con appassimento delle uve che sacrifica l’acidità, componente importante”.

Paolo Massobrio ribadisce il declino del vino legnoso: “Non berrei più il vino dove si faceva evidente la nuance di vaniglia, talvolta di vernice, segno di un uso poco oculato della barrique”. Alessandra Meldolesi, sveltissima, annuncia l’obsolescenza di un fenomeno piuttosto recente: “Rispetto a dieci o quindici anni fa, non berrei più i vini cosiddetti naturali poco corretti e poco puliti, nemmeno quelli che vengono tuttora celebrati. Probabilmente un tempo hanno svolto una funzione di rottura rispetto alla camicia di Nesso della tecnica enologica, ma oggi, per dirla col Gaber di ‘Quando è moda è moda’, non fanno più male a nessuno”. Tommaso Melilli prima di entrare nel catalogo Einaudi ha fatto il cuoco a Parigi, è lì che ha cominciato a bere vino, “quel tipo di rosso leggero francese, anarchico, con acidità volatile fuori controllo e spesso altri difetti, quel tipo di vino che nei neo bistrot parigini scapigliati scorre a fiumi e a bottiglioni.

Gamay, Grolleau e simili, hanno tutti delle etichette molto colorate e i nomi delle cuvée sono spesso giochi di parole, a volte sconci. Sono vini a cui voglio bene, per i quali provo molta indulgenza, ma...”. Federico Menetto stila un lungo elenco di vini d’antan e non ne rimpiange nemmeno uno: “Trent’anni fa ho cominciato a bere col Brachetto d’Acqui e i vini dell’Oltrepò. Vent’anni fa avevo il mito dello Chardonnay di Planeta e il Morellino di Scansano, dieci anni fa degli orange wine del Carso...”. Savino Muraglia, l’uomo che ha elevato la dignità del bistrattato olio pugliese e dunque un possibile punto di riferimento per i produttori di vitigni negletti, è l’unico a citare il vino italiano più bevuto nel mondo: “Oggi faccio fatica a bere il famoso Prosecco”. Edoardo Nesi scrive libri ricchi di dettagli alcolici, conosce bene l’argomento e dunque è con cognizione di causa che ha smesso di bere “i Pinot e gli Chardonnay altoatesini”.

 

Quali Pinot? “Il bianco e il grigio”. Gigi Padovani confessa una colpa dei tempi dell’università, ormai caduta in prescrizione: “Mi vergogno ma mi piaceva il Mateus Rosè, con la sua bottiglia a forma di borraccia, che andava giù come la birra: correvano gli anni Settanta”. Piersandro Pallavicini, romanziere-gourmet, non deplora un singolo vino ma un intero genere, il temibile “vino del contadino”, “abitudine di tante famiglie (inclusa purtroppo la mia) che si riempivano le cantine con questi orrendi vini maturati male, imbottigliati a caso, di gusto mal riuscito. Il mito del ‘vino buono’ perché ‘genuino’ apparteneva a mio padre e alla sua generazione ed è un tipo di vino che ora detesto, e che allora bevevo inconsapevole”. Nelson Pari, giovane sommelier del superesclusivo 67 Pall Mall di Londra, si è stancato dei vini troppo macerati, nel suo ultimo ritorno in Romagna (è di Rimini) ha ordinato un’Albana macerata, il Sabbia Gialla: “Tra alcol e tannini non è stato permesso di berne più di mezza bottiglia in due. E sono sicuro che quattro anni fa me ne sarei bevute due da solo”.

Fabio Picchi, anima pantagruelica del Cibreo se non di Firenze tutta, mi parla di un tempo remoto in cui disprezzava sia i sommelier (“troppo borghesi”) sia i bianchi toscani: “Ci imbattemmo in un Custoza, lo trasformammo nella nostra personalissima bandiera. Oggi, grazie all’età, beviamo meno e molto meglio...”. Luciano Pignataro, faro del mangiare e bere sudista, rinnega il siciliano Duca Enrico: “Ricordo una straordinaria verticale al Quisisana di Capri presente anche Gualtiero Marchesi. Oggi, riprovando quelle annate dai muscoli esibiti come i tatuaggi dei calciatori e dei rapper, mi ritraggo spaventato in cerca di semplicità”. Paride Rabitti, il lambruscologo col quale sono in lambruscologico disaccordo (per me il Lambrusco è un mondo, per lui è Modena), ha lasciato il Lambrusco morbidone: “Un tempo andavo fino a Gualtieri ad acquistare il Lambrusco e Bonarda della Cantina Tirelli, che oggi si chiama Rosso Tirelli. Il mio gusto si è evoluto sui lambruschi rosa, sul Sorbara in purezza”. Edoardo Raspelli è telegrafico: “Il Bardolino”.

 

Leonardo Romanelli rivela una vecchia, disdicevole frequentazione: “Trent’anni fa ancora bevevo il Brachetto, forse per la nostalgia dei diciott’anni, per la semplicità di beva, i profumi accattivanti. L’ho abbandonato senza rancore, non l’ho più cercato e non mi manca”. Cristina Rombolà mi fa una lunga lista di vini presi e lasciati ma se deve formulare un solo vade retro è per l’ormai famigerato Gewürztraminer: “Prima mi piaceva, ora non più”. Se non fossi antisocialista e perciò contrario alle cantine sociali comincerei seriamente a preoccuparmi per le sorti della Cantina cooperativa di Termeno (secondo i germanofoni Tramin). Leila Salimbeni di Spirito Divino nei primi anni Zero sceglieva “etichette dalla natura esuberante e marcata, non di rado figlie di tagli bordolesi. Oggi prediligo vini dal registro più sottile. Più che l’eloquenza apprezzo insomma l’evocazione”.

Andrea Scanzi è personaggio col quale in teoria ho poco da spartire, mentre in pratica abbiamo parecchie insofferenze in comune: “Vent’anni fa mi poteva piacere persino il Morellino di Scansano. Potevo bere il Merlot, il Cabernet Sauvignon. Ricordo che mi piacevano vini sicuramente rispettabili ma a me ora lontanissimi come il Bradisismo di Inama o il Vintage Tunina di Jermann”. Massimo Zanichelli, massimo esperto italiano di vini dolci (qui poco citati forse perché già fuori moda prima che tutti noi nascessimo), da ultimo in ordine alfabetico chiude perfettamente il cerchio: “Lo Chardonnay in barrique”. La lista dei vini obsoleti è stilata. Mi sembra evidente che negli ultimi tempi, almeno a livello di intenzioni, si sia passati dalla pesantezza alla grazia, per dirla con Simone Weil. Terribilmente fuori moda risultano le bottiglie pompose, l’eccesso di legno, di profumo, di alcol, di prezzo. Fino alla prossima moda, naturalmente.