Banditi d’antan. Storia romanzata della brigantessa calabrese che decise di seguire Garibaldi

Categoria: Cultura

Il suo nome era Maria, ma tutti la conoscevano come Ciccilla. Sfuggì a una vita di povertà dai monti della Sila attraverso azioni violente e appoggiando l’esercito dei Mille. La sua vita da ribelle e proto-femminista è raccontata da Giuseppe Catozzella in “Italiana” (Mondadori)

da Snappygoat

Giuseppe Catozzella 25.2.2021 linkiesta.it lettura4’

Da quando Pietro non c’era più io andavo nel bosco a respirare. C’era invece un enorme larice, contorto e scuro, cresciuto sopra uno spuntone di roccia, per secoli aveva resistito ai fulmini, aveva profonde cicatrici e i rami più vecchi erano spezzati ma ogni primavera, quando i merli ritornavano a fare i nidi, si rivestiva di fiori gialli e rossi che risvegliavano gli amori delle ghiandaie.

Da piccola, quando dal bosco lo vedevo insieme a zia Terremoto, inclinato e solitario su quella rupe, ero sicura che fosse nato da un seme nascosto da uno scoiattolo in vista dell’inverno. Quell’albero era una promessa mantenuta. Poi, con Pietro al fronte, quando vedevo quel larice non potevo fare a meno di pensare a un soldato, storpio e ferito, ma pur sempre in piedi. Era lì che andavo, adesso.

Attraversavo il bosco e salivo in cima alla rupe, mi arrampicavo tra gli aghi che al tramonto si accendevano al sole, mi sedevo a cavalcioni sulla biforcazione tra due rami e lasciavo che la luce mi colpisse in faccia.

Prendevo con me la sporta e, come facevo con zia Terremoto, tornavo a casa con un po’ di legna rubata, rami e pigne secche per accendere il fuoco. La notte andavo in un campo di grano a valle a spigolare, raccoglievo funghi e castagne, pescavo qualche trota nel torrente. Mi prendevo, rubando, quello che era mio.

Arrivava la primavera, e un tiepido sole saliva a scaldarmi. Le ghiandaie, i merli, le beccacce, i picchi rossi tornavano dalle nostre parti. Le betulle, all’inizio del bosco, aprivano i rami a un tenero verde.

Capitava che Pietro comparisse all’improvviso per fare provviste e per fare l’amore. Ogni tanto veniva con lui un compagno, si chiamava Marchetta, lo aspettava nascosto per tutto il tempo dietro un muricciolo poco distante. Portavano legna, castagne e funghi e ripartivano con fiaschi di vino, forme di cacio e salsicce.

C’era un ordine che si annunciava con l’arrivo della primavera ed era più grande di noi, più grande di me, di Pietro, dei Morelli e dell’Italia, più grande del mondo, un ordine che ogni anno riportava le cose al loro posto. Anche se niente, in realtà, sulla superficie era pacifico come sembrava: le rivolte dei contadini partite da Pontelandolfo arrivavano anche nelle Calabrie, in Basilicata, in Sicilia, in Capitanata, negli Abruzzi, in Terra di Lavoro.

Armati di forconi, i braccianti si prendevano gli usi civici che Garibaldi aveva promesso. Occupavano le terre e le dividevano in parti uguali. Allora iniziavano gli scontri. Il governatore Morelli inviava i bersaglieri e a decine i braccianti venivano fucilati, le loro case razziate, i paesi incendiati. Era una guerra tra oppressi e manipolatori, una guerra civile e qualcuno, anche dalla nostra parte, doveva combatterla.

Io però sentivo che presto sarebbe accaduto a me qualcosa di male, anzi di orribile. Pietro non dava più notizie e da molto non tornava, io avevo perso l’appetito e nel sonno venivo visitata da incubi terrificanti: ero intrappolata, gridavo e dalla bocca non usciva suono, ero additata in paese per fatti che non avevo commesso, solo perché ero la moglie di Pietro. Mi svegliavo di soprassalto inzuppata di sudore. Erano premonizioni. E infatti poco dopo è accaduto che una mattina le guardie sono venute a casa e mi hanno portata via.

Stavo filando, avevo messo a bollire delle verdure con un pezzetto di carne di maiale, dovevo forzarmi a mangiare e poi speravo sempre che Pietro da un momento all’altro sarebbe entrato per prendere rifornimenti da portare alla banda.

I soldati hanno buttato giù la porta, ho cercato di resistere ma erano in quattro, senza neppure lasciarmi il tempo di parlare e senza dire niente mi hanno ammanettata. Poi mi hanno trascinata fuori per i capelli.

In quel momento le campane battevano le dieci, i vicini erano affacciati – chi da una finestra, chi da uno spiraglio della porta, chi da dietro una tenda. Nessuno parlava, quattro bambini che stavano giocando in mezzo alla via con una palla di stracci si sono fermati, immobili ci guardavano passare.

«Che volete?» gridavo io alle guardie. «Che volete da una povera donna sola?»

Ma il comandante ripeteva solo che rispondevano agli ordini di Fumel, il colonnello mandato in Calabria per fare la guerra ai briganti.

Con gli occhi di mezzo paese puntati addosso, mi hanno caricata su un cavallo e ci siamo avviati lungo la strada che usciva da Macchia. Dopo il cimitero abbiamo preso il sentiero del Cannavino, dentro il bosco, il Monte Guarabino ci guardava; poi abbiamo seguito una mulattiera fino a Celico, un paesino di pastori. Una volta a Celico, abbiamo svoltato dentro il convento di San Domenico, che Fumel aveva requisito per farne il suo quartier generale.

Io ero stremata. Non riuscivo a smontare da cavallo e una guardia l’ha preso per un moto di ribellione. Ha cominciato a battermi, ma il comandante l’ha fermata. Mi hanno tirato giù a forza e mi hanno condotta in un chiostro con una fila di porte di legno che si aprivano su una lunga parete.

Nel muro accanto alla porta di quella che sarebbe stata la mia cella c’era una nicchia con l’effigie di san Domenico. Il santo aveva occhi buoni, un uccellino stava appoggiato sulla mano destra, lui lo guardava come per incoraggiarlo a volare.

È stato allora che mi hanno tolto le manette e mi hanno spinta in quello che un tempo doveva essere il cubicolo di una monaca. La follia che c’era fuori, in quello che era stato il Regno e adesso era l’Italia, era entrata nella mia vita. Hanno chiuso a due mandate e se ne sono andati.

da “Italiana”, di Giuseppe Catozzella, Mondadori, 2021, pagine 316, euro 19