Vita comune. Così sarà il futuro delle città nei prossimi decenni

Categoria: Cultura

L’urbanizzazione è la più grande invenzione dell’essere umano, che ne ha determinato la storia, lo sviluppo e anche qualche problema. Ora, di fronte a un pianeta segnato dal cambiamento climatico, spiega Ben Wilson in “Metropolis” (Il Saggiatore), occorre rivedere e migliorare il nostro modello

Ben Wilson6.8.2021 linkiesta.it lettura6’

Il successo delle città si deve in gran parte alla loro capacità di offrire piacere, eccitazione, fascino e intrigo, oltre a potere, soldi e sicurezza. Da più di seimila anni il genere umano continua a sperimentare metodi per vivere nel maelström urbano.

Siamo bravi a vivere nelle città, e le città sono creazioni solide, capaci di reggere a guerre e disastri. Al contempo, però, siamo anche molto meno bravi a costruirle: abbiamo pianificato ed edificato, nel nome del progresso, posti che imprigionano invece di liberare, immiseriscono invece di elevare.

Tante tragedie inutili sono state provocate da esperti che inseguivano il sogno della metropoli perfetta, progettata scientificamente. Oppure, in modo meno drastico, la pianificazione crea spesso ambienti asettici, svuotati di quelle energie che giustificano lo sforzo di vivere in città.

In un’epoca in cui non solo è aumentato il numero delle grandi città, ma ci sono larghe estensioni del mondo abitato che stanno diventando urbane, il problema di come vivere in questi agglomerati umani è più pressante che mai. Solo arrivando a comprendere la straordinaria varietà dell’esperienza urbana nel tempo e nelle diverse culture possiamo iniziare a cimentarci con una delle più grandi sfide del terzo millennio.

Le città non sono mai state perfette e non potremo mai renderle tali. Anzi, gran parte del piacere e del dinamismo delle città viene proprio dalla loro confusione spaziale. Con confusione spaziale intendo la grande diversità di edifici, persone e attività ammassati insieme e costretti a interagire. L’ordine è un concetto sostanzialmente antiurbano. Quello che rende attraente una città è il suo sviluppo incrementale, il processo attraverso cui viene costruita, e ricostruita, interamente nel corso delle generazioni, producendo un tessuto urbano ricco e con una trama fitta.

La città, in sostanza, è proprio questa confusione. Pensate a posti come Hong Kong o Tokyo, dove i grattacieli troneggiano sopra strade che brulicano di pedoni, mercati, negozietti, venditori di cibo di strada, ristoranti, lavanderie, bar, caffè, piccole industrie e officine. O pensate a un insediamento come Dharavi, in una megacittà cacofonica che è uno scenario di attività costante e frenetica nelle strade, dove tutti i bisogni fondamentali sono accessibili in un raggio ristretto. Come sosteneva la scrittrice canadese‐americana Jane Jacobs negli anni sessanta, la densità di una città e la sua vita di strada produce urbanità, l’arte di essere cittadini. I quartieri cittadini dove ci si può spostare a piedi sono ingredienti fondamentali della vita cittadina.

Pensate invece alle città moderne di ogni parte del mondo, dove il commercio al dettaglio, la piccola industria, le aree residenziali e gli uffici sono rigorosamente separati. In molti casi, questa compartimentazione delle funzioni in quartieri distinti ha l’effetto di sterilizzare la città, rendendola pulita e ordinata, ma svuotata di energie. La pianificazione urbanistica può produrre questo risultato. E lo stesso le automobili. La diffusione di massa delle auto di proprietà – prima negli Stati Uniti, poi in Europa e più recentemente in America Latina, in Asia e in Africa – ha cambiato radicalmente volto alle città. Le autostrade non solo hanno facilitato la dispersione urbana, con la proliferazione di quartieri residenziali periferici e la nascita di centri commerciali fuori città, ma all’interno dei quartieri centrali le strade ampie e trafficate e gli enormi parcheggi hanno contribuito a uccidere quello che restava della vita di strada.

Quando parliamo di oltre il 50 per cento della popolazione mondiale in via di urbanizzazione, rischiamo di incorrere in un errore. Un’ampia fetta delle persone che vivono nelle città moderne non ha uno stile di vita urbano, se con ciò intendiamo vivere in quartieri dove ci si può spostare a piedi e si può accedere facilmente a cultura, intrattenimento, svago, opportunità lavorative, spazi pubblici e mercati. Buona parte di quel 50 per cento e passa ha uno stile di vita suburbano, che sia nelle eleganti villette unifamiliari con il prato ben curato o nelle cosiddette «città d’arrivo», accampamenti abusivi aggrappati ai margini di una metropoli in rapido sviluppo.

Il problema del XXI secolo non è che ci stiamo urbanizzando troppo in fretta, ma che non ci stiamo urbanizzando abbastanza. Perché questa cosa è importante? Non lo sarebbe se fossimo liberi di scialacquare a piacimento con il nostro pianeta. Il fatto che ogni giorno duecentomila persone affluiscano nelle città, o che intorno al 2010 siamo diventati una specie in maggioranza urbana, sono cose che rimangono impresse, ma non raccontano tutta la storia. Molto più allarmante è la consapevolezza che mentre la popolazione urbana è destinata a raddoppiare nell’intervallo di tempo che corre fra il 2000 e il 2030, l’area occupata dalla giungla di cemento triplicherà. Solo in questi tre decenni, l’impronta urbana della nostra specie crescerà di un’area equivalente alle dimensioni del Sudafrica.

Questa dispersione urbana mondiale sta facendo penetrare i centri urbani all’interno di paludi, zone naturali, foreste pluviali, estuari, foreste di mangrovie, piane alluvionali e terreni agricoli, con conseguenze devastanti per la biodiversità e il clima. Stiamo spostando le montagne per fare posto a questa epica ondata di urbanizzazione. In senso letterale: dal 2012 a oggi sono state implacabilmente distrutte settecento cime montuose nel remoto Nordovest della Cina, e i detriti scaricati a valle per creare un altopiano artificiale dove è in via di costruzione una nuova e scintillante città di grattacieli chiamata Lanzhou New Area, uno scalo lungo la Nuova Via della Seta.

Nei quartieri centrali delle città cinesi, come in quelle americane prima di loro, la densità di popolazione sta calando, via via che la costruzione di strade e uffici costringe la gente ad abbandonare i quartieri urbani caratterizzati da un’alta densità abitativa e una polivalenza di funzioni per andare a vivere nei sobborghi. Questo fenomeno si inserisce nel quadro di una tendenza globale verso un’urbanizzazione a bassa densità e dipendente dall’automobile e verso la dispersione urbana. Quando diventano più ricche, le persone cominciano a pretendere più spazio vitale.

Se gli abitanti delle città cinesi e indiane scegliessero di vivere secondo i generosi criteri di densità abitativa degli americani, il loro uso di veicoli e la loro domanda di energia farebbero aumentare le emissioni di anidride carbonica del 139 per cento.

L’epidemia di coronavirus del 2020, e le minacce di pandemie future, potrebbero invertire nuovamente la tendenza a danno delle città, incoraggiando le persone a fuggire dalle metropoli, posti dove è difficilissimo sopportare lunghi periodi di quarantena e confinamento e dove i rischi di infezione sono maggiori. Se dovesse succedere una cosa del genere, il danno ecologico sarebbe pesante.

In un clima più caldo, più umido e più ingrato, le città potrebbero offrire una via d’uscita dal problema. Come dimostro nel lungo excursus storico che traccio in questo libro, le città sono entità resistenti e adattabili, capaci di reggere e reagire a tutti i tipi di disastri, e noi siamo una specie urbana e adattabile, abituata da tempo alle pressioni e alle possibilità che offre la vita cittadina. Ed è nel nostro interesse continuare a innovare. In questo secolo, due terzi delle principali metropoli con popolazioni superiori ai cinque milioni di abitanti, come Hong Kong, New York, Shanghai, Giacarta e Lagos, sono minacciati dall’innalzamento del livello del mare; molte altre stanno morendo di caldo per l’aumento delle temperature e le conseguenze di perturbazioni atmosferiche distruttive.

Le nostre città sono sulla linea del fronte della catastrofe ambientale incombente e proprio per questo motivo potrebbero assumere un ruolo guida negli sforzi per mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici. Una delle cose più straordinarie delle città è la loro capacità di trasformarsi: durante tutta la storia, si sono adattate a mutamenti del clima, spostamenti delle rotte commerciali, cambiamenti tecnologici, guerre, malattie e sconvolgimenti politici. Le grandi pandemie del XIX secolo, per esempio, plasmarono le città moderne perché costrinsero le autorità a impegnarsi in sforzi di ingegneria civile, sanificazione e progettazione urbanistica. Le pandemie del xxi secolo trasformeranno le città in modi che al momento non riusciamo nemmeno a immaginare. Spinte dalla necessità, si adatteranno a un’epoca di crisi climatica.

Quali forme assumerà questa evoluzione? Fintanto che esisteranno le città, le loro dimensioni saranno determinate dalla modalità di trasporto prevalente, dalle minacce esterne, dalla disponibilità di risorse e dal prezzo dei terreni agricoli limitrofi. Per gran parte della storia, tutti questi sono stati fattori che hanno limitato la crescita delle città: solo le società ricche e in pace potevano permettersi di allargarsi, di stendere i gomiti.

da “Metropolis. Storia della città, la più grande invenzione della specie umana”, di Ben Wilson, Il Saggiatore, 2021, pagine 568, euro 34