Autocrazie in crisi. Tutti i luoghi comuni alimentati dalla propaganda illiberale

Categoria: Cultura

La democrazia è in affanno, ma regge meglio degli altri sistemi. Se ne stanno accorgendo in Russia, in Iran e in Cina. Chissà che nel 2023 la notizia non arrivi perfino negli studi tv italiani

Francesco Cundari 5.5.2023 linkiesta.it lettura5’

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Le notizie sulla ritirata della democrazia nel mondo da tempo non sono più una novità. Ogni anno si susseguono rilevazioni, dati e analisi che confermano una tendenza angosciante. A febbraio del 2022 il Democracy Index dell’Economist, che misura lo stato della democrazia globale, registrava per l’anno precedente il calo più pesante dal 2010, quando il mondo faceva i conti con le conseguenze della crisi finanziaria, e il risultato più basso dall’inizio delle rilevazioni, nel 2006. Il rapporto 2022 di Freedom House, ong che si occupa dello stato della democrazia e delle libertà civili, descrive l’espansione dell’autoritarismo. Un quadro inquietante che è il frutto di sedici anni consecutivi di declino dei dati sulla libertà globale. «A oggi», dice il rapporto, «circa il 38 per cento della popolazione mondiale vive in Paesi non liberi, la più alta percentuale dal 1997».

Dare una misura esatta a concetti sfuggenti come libertà e democrazia può suscitare legittimi dubbi; ma comunque si giudichino metodologie e risultati delle singole rilevazioni, quello che colpisce è la tendenza, su cui tutti i dati e tutte le analisi convergono ormai da moltissimo tempo. La democrazia sembra essere in ritirata, e così le libertà civili e i diritti umani, anche all’interno dei Paesi democratici, mentre crescono simmetricamente il numero e l’influenza dei Paesi non democratici, solo parzialmente democratici o apertamente dittatoriali.

Sebbene, come si vede, il processo sia cominciato molto prima, non c’è bisogno di molti grafici e percentuali per spiegare come la pandemia abbia accelerato questa deriva. Figuriamoci quando alla pandemia, alle conseguenti misure restrittive e ai loro pesanti effetti economici si sono sommate le tensioni, i disagi e le paure suscitate nelle opinioni pubbliche di tutto il mondo dalla guerra in Ucraina, dall’inflazione e dalla crisi energetica. Sembrerebbe la ricetta perfetta, a quasi cento anni di distanza, per un revival degli anni Trenta del Novecento.

Non per niente – come è ormai quasi obbligatorio sin dal primo apparire di qualunque genere di crisi – analisti e commentatori hanno ricominciato a prendersela con Francis Fukuyama, per ripetere che la storia non è affatto finita e il suo ottimismo sulla vittoria definitiva del modello liberaldemocratico occidentale completamente infondato.

A conferma di questa tesi hanno avuto ampia circolazione diversi pericolosi e molto antichi luoghi comuni. Quante volte ci siamo sentiti dire che i regimi autoritari, a cominciare dalla Cina, si stavano dimostrando meglio attrezzati per affrontare la pandemia, che tutto sommato la popolazione era ben felice di cedere un po’ di libertà in cambio di sicurezza, crescita economica e benessere, tutte cose che le fiacche, litigiose, deboli democrazie occidentali non erano più in grado di garantire a nessuno. E tantomeno l’Unione europea, con le sue farraginose procedure democratiche, la sua stentata crescita economica, i suoi asfissianti vincoli di bilancio (almeno per noi italiani).

Oggi vediamo però che, mentre il resto del mondo, noi compresi, conduce una vita pressoché normale, la televisione cinese deve censurare persino i Mondiali, stringendo le inquadrature sui giocatori e tagliando tutte le immagini degli stadi pieni e dei tifosi accalcati, affinché i loro cittadini non vedano come stanno le cose altrove, e non possano fare paragoni. Ma come stanno le cose lo sanno già, i paragoni li fanno e il risultato sono proteste contro il regime mai viste per estensione e radicalità dai tempi di piazza Tian An Men.

Oggi vediamo che sono i cittadini della democratica, pro-europeista e pro-occidentale Ucraina a dimostrare una forza e un coraggio insospettati, mentre sono i soldati russi a disertare, ad abbandonare i carri armati sul campo di battaglia o prima ancora di esserci arrivati. Sono i giovani russi, timorosi di essere arruolati, a lasciare il loro Paese, mentre tanti ucraini che all’estero già ci stavano, al sicuro, fanno ritorno in patria per difenderla dall’invasore.

Oggi vediamo che persino la teocrazia iraniana fa sempre più fatica a contenere le proteste che hanno preso avvio dalla scomparsa di Mahsa Amini, morta dopo essere stata arrestata dalla polizia religiosa per come indossava il velo.

La Cina è il principale alleato della Russia, sebbene sia stata ben attenta a non farsi trascinare nella guerra contro Kyjiv. L’Iran, sebbene ufficialmente neghi ogni coinvolgimento, non ha esitato a fornire a Vladimir Putin i droni utilizzati contro le città ucraine.

Certo, in Italia, leggendo i giornali e guardando la tv, è difficile rendersene conto. Qui, per molte ragioni, continua a prevalere una narrazione del tutto opposta – opposta alla realtà, s’intende – in cui sono i sostenitori dell’Ucraina a essere dipinti come servi degli Stati Uniti, come gli ultimi fanatici esponenti di un imperialismo americano ormai in disarmo, come i disperati propagandisti di una civiltà occidentale in declino – priva di valori, senza identità e senza radici, abitata solo da gente rammollita dal consumismo e rincretinita dalla televisione – destinata inevitabilmente all’estinzione. Mentre i deliri nazionalisti, omofobi e oscurantisti di Putin e del patriarca Kirill sarebbero l’esempio di una nazione unita, forte dei propri valori, della propria tradizione e della propria identità.

Naturalmente, nulla può più essere dato scontato. Dopo aver visto Donald Trump incitare i suoi sostenitori ad assaltare il Congresso nel tentativo di rovesciare l’esito del voto, il 6 gennaio 2021, dobbiamo sempre domandarci cosa sarebbe successo se quel risultato non fosse stato nettissimo e ben distribuito tra diversi Stati americani. Se cioè quella di Joe Biden fosse stata una vittoria di misura, appesa a pochi voti contestati, come accadde nel 2001 con la vittoria di George W. Bush su Al Gore: è più che lecito domandarsi se la democrazia americana sarebbe oggi ancora in piedi, se non avremmo assistito a una vera e propria guerra civile e quali conseguenze avrebbe avuto un simile scenario nel resto del mondo (a cominciare proprio dall’Ucraina).

Sta di fatto che oggi anche la stella di Trump, il principale agente del caos che la democrazia occidentale abbia dovuto fronteggiare al proprio interno, appare decisamente in declino. Così come decisamente più deboli di un anno fa appaiono Putin, gli ayatollah iraniani e persino il potentissimo Xi Jinping.

Il 2022 ha smentito tutti i luoghi comuni alimentati, sui nostri mezzi di comunicazione, dalla propaganda illiberale. Come si è visto, anche dinanzi alle minacce mortali della pandemia e della guerra, non sono i regimi autocratici a essersi dimostrati capaci di garantire maggiore sicurezza, tranquillità, ricchezza e benessere alle loro popolazioni.

Sono state le democrazie capitaliste occidentali, con tutti i loro limiti, a dimostrarsi capaci di trovare le soluzioni più efficaci, i vaccini migliori, i compromessi più ragionevoli tra libertà, diritti individuali e salute pubblica.

È stato il desiderio di entrare nell’Unione europea, consolidando l’evoluzione del Paese verso una compiuta democrazia occidentale, ad animare l’eroica resistenza degli ucraini. Ideali e desideri che alla prova dei fatti, sul campo di battaglia, si sono dimostrati assai più forti del richiamo alla retorica del sangue e del suolo, dell’oscurantismo religioso e del fanatismo nazionalista agitato contro di loro in Russia. Una retorica che fa sempre meno presa a Mosca, come sembra fare sempre meno presa a Teheran e persino a Pechino, e forse un giorno, chissà, perderà il suo slancio anche sulle tv italiane.