Specchiarsi nel giaguaro . Chiedimi chi erano i Beatles e ti spiegherò la crisi della sinistra

Categoria: Cultura

Bersani, a cui ho dato il mio primo voto da cittadina italiana, mi ricorda perché ho perso fiducia in un’area politica incapace di evolversi e adeguarsi ai cambiamenti del mondo

1.5.2025Anita Likmeta, linkiesta.it lettura3’

L’uscita imminente del libro di Bersani, a cui ho dato il mio primo voto da cittadina italiana, mi ricorda perché ho perso fiducia in un’area politica incapace di evolversi e adeguarsi ai cambiamenti del mondo

Ieri, scrollando su X, mi sono imbattuta nella notizia dell’uscita imminente di “Chiedimi chi erano i Beatles. I giovani, la politica, la storia”, il nuovo libro di Pierluigi Bersani. In un tempo in cui ogni messaggio si consuma nella velocità di una notifica, e la politica italiana si è ridotta a eco stanca di sé stessa, vedere emergere un titolo simile, tra il rumore bianco della rete, ha avuto su di me l’effetto paradossale di un ritorno alle origini, o meglio a quel momento fragile e incerto in cui la politica sembrava ancora una promessa possibile.

Votai Bersani al mio primo voto da cittadina italiana, non per adesione a una dottrina, né per convinzione ideologica articolata, ma per un impulso istintivo di fiducia: verso una cultura politica che, persino nelle sue esitazioni e nelle sue goffaggini, sembrava ancora custodire un rispetto residuale per i deboli, per gli ultimi, per coloro che, come me, non avevano ancora trovato una voce.

Era un’Italia che parlava per metafore consunte, per dialetti sinceri, per sorrisi trattenuti. Eppure, proprio quel linguaggio, quel rifugio nella bonomia dialettale, era già il sintomo di una malattia più profonda: l’incapacità di riconoscere il mutamento, di accettare la sfida della complessità, di trasformare la solidarietà in progetto politico e non in nostalgia. L’ossessione per la smacchiatura del giaguaro – quell’immagine che avrebbe dovuto essere autoironica e che invece si cristallizzò in un atto mancato collettivo – raccontava, in filigrana, la natura regressiva di quella politica: più legata al rituale della lotta che all’effettiva trasformazione della realtà.

Non si combatteva per cambiare, ma per reiterare il conflitto, come se l’identità politica potesse sopravvivere solo nell’eterna contemplazione del nemico. Nessun progetto reale di emancipazione, nessuna integrazione autentica della diversità, nessun ascolto vero dei giovani o dei nuovi cittadini: solo la ripetizione ossessiva di una genealogia immaginaria, in cui ogni anomalia veniva ricondotta al copione antico della Resistenza, della lotta al padrone, della sopravvivenza.

Era, freudianamente parlando, una coazione a ripetere: la sinistra italiana si aggrappava ai suoi simboli come il nevrotico ai propri rituali, incapace di evolvere, incapace di separarsi da un’identità che era diventata la propria prigione.

Nella mia traiettoria personale, questa scoperta fu lenta, dolorosa, ma inesorabile. Non mi bastava essere riconosciuta come migrante, come figura da proteggere. Volevo essere riconosciuta come individuo, come cittadina piena, capace di esprimere la propria forza senza attraversare ogni volta il filtro compassionevole di chi insisteva nel vedermi solo come testimonianza vivente di vulnerabilità. F

u proprio questa impossibilità a trovare uno spazio nella sinistra italiana che mi spinse, un passo alla volta, verso un orizzonte politico differente: quello liberale, in cui la libertà non è promessa come redenzione futura, ma riconosciuta come diritto originario; dove il linguaggio non consola, ma libera; dove la dignità non è un premio tardivo, ma il punto di partenza.

In questo senso, vedere oggi un libro che ripropone, seppure con le migliori intenzioni, il tema dei giovani, della politica, della storia, produce un effetto straniante: come se si volesse ancora parlare a una generazione cresciuta nella dipendenza e nell’attesa, senza mai concederle davvero il privilegio di scegliere.

La crisi culturale italiana – perché è innanzitutto una crisi culturale – nasce da qui: dall’incapacità di discernere, di separare il passato dalla possibilità del futuro, di comprendere che la protezione senza libertà infantilizza, non emancipa. Una cultura politica che non sa più parlare ai giovani se non attraverso la nostalgia dei propri fallimenti non produce partecipazione, ma rifiuto. E una società che continua a raccontare i migranti come figure retoriche, anziché riconoscerli come soggetti politici pieni, è una società che si incarta su se stessa, ripetendo all’infinito il mito dell’accoglienza senza mai metabolizzare la realtà della cittadinanza.

Freud ci insegna che il punto in cui il sintomo si stabilizza è il punto in cui la malattia smette di essere eccezione e diventa norma: l’Italia di oggi è un Paese che ripete i propri errori con la perseveranza cieca di chi non sa nemmeno più riconoscerli. Una società che discute ancora dei giovani come oggetto da interpretare, senza mai accettare di essere essa stessa sottoposta ad analisi, è una società che ha paura del cambiamento più di quanto abbia paura del fallimento.

Mi auguro che “Chiedimi chi erano i Beatles” sia un libro onesto, capace di guardare negli occhi la propria storia senza indulgere nella nostalgia. Ma non posso non vedere, anche prima di averlo letto, il sintomo che attraversa tutto questo discorso: il tentativo disperato di parlare ancora in nome di chi, ormai, ha voltato pagina. Non con rabbia, non con ingratitudine. Ma con il silenzioso, definitivo pudore di chi ha imparato che crescere significa sapere quando è tempo di andarsene.