Storia. Quando i contadini ucraini si opposero ai sovietici: la carestia artificiale di Stalin contro la minaccia

Categoria: Cultura

del potere agricolo. 1932-1933 il genocidio per fame orchestrato da Stalin per piegare i contadini ucraini

Tullio Camiglieri 16 Novembre 2025 alle 10:30 ilriformista lettura3’

Nell’immenso teatro del Novecento, l’Ucraina è stata spesso il campo di battaglia tra due imperi, la Russia e l’Europa. Ma pochi episodi hanno segnato così profondamente la memoria di un popolo quanto l’Holodomor, la grande carestia del 1932-1933, il genocidio per fame orchestrato da Stalin per piegare i contadini ucraini e cancellare la loro autonomia economica e culturale. Per milioni di persone, la fame non fu una calamità naturale, ma un progetto politico. E le sue ferite, novant’anni dopo, continuano a spiegare una buona parte dell’odio e della diffidenza degli ucraini per Mosca – All’inizio degli anni Trenta, l’Ucraina era il cuore agricolo dell’Unione Sovietica.

I suoi campi di grano alimentavano Mosca, Leningrado e buona parte dell’industria sovietica. Ma per Stalin, quel potere agricolo rappresentava una minaccia. I contadini ucraini, ancora legati alla tradizione individuale della terra e alla lingua nazionale, si opponevano alla collettivizzazione forzata imposta da Mosca. La risposta del Cremlino fu brutale. Nel 1929 Stalin avviò la “dekulakizzazione”: la soppressione della classe dei kulaki, i contadini proprietari. Migliaia di famiglie furono deportate in Siberia o nei gulag. Chi rifiutava di entrare nei kolchoz, le fattorie collettive, veniva marchiato come “nemico del popolo”. Nel 1932, la situazione precipitò. Le autorità sovietiche imposero all’Ucraina quote di consegna di grano irrealistiche, spesso superiori alla produzione effettiva. Le squadre di requisizione – soldati, miliziani, funzionari di partito – entravano nei villaggi e portavano via tutto: non solo il raccolto, ma anche i semi, le riserve, perfino gli animali domestici. Chi nascondeva qualche sacco di grano rischiava l’arresto o la fucilazione- Il 7 agosto 1932 fu promulgata la famigerata Legge delle Spighe. Bastava raccogliere una manciata di chicchi caduti da un carro per essere arrestati come ladri della “proprietà socialista”.

Migliaia di uomini, donne e bambini vennero condannati a lunghe pene nei campi di lavoro o fucilati per aver tentato di sfamarsi. I sopravvissuti ricordano famiglie costrette a mangiare radici, bucce, erba. Le madri seppellivano i figli in giardini ghiacciati. Ci furono casi di cannibalismo, documentati persino dai rapporti segreti del NKVD. Uno di essi, conservato negli archivi di Kiev, recita: “La popolazione muore a migliaia. Le strade sono piene di cadaveri. La gente scava nei campi cercando semi marci.” La repressione non si fermò al grano. Nello stesso periodo furono arrestati o uccisi scrittori, sacerdoti, insegnanti, intellettuali. La lingua ucraina venne bandita dalle scuole, le chiese greco-cattoliche chiuse o distrutte. Le autorità sigillarono i confini dell’Ucraina per impedire ai contadini affamati di fuggire verso la Russia o la Bielorussia. Alla fine del 1933, milioni di persone erano morte, le stime oscillano tra 3 e 5 milioni di vittime. I giornali stranieri vennero accompagnati in “villaggi modello”, dove il pane non mancava. Walter Duranty, corrispondente del New York Times da Mosca, scrisse che “non vi è carestia, solo difficoltà alimentari”. Per quell’articolo ricevette il Premio Pulitzer. Le rare voci critiche, come quella del giornalista gallese Gareth Jones, che denunciò apertamente “una carestia artificiale voluta da Stalin”, furono screditate.

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L’Occidente preferì tacere: la crisi economica, la paura del nazismo e la fascinazione per il “modello sovietico” resero scomodo affrontare la verità. Le testimonianze di giornalisti occidentali – come Gareth Jones o Malcolm Muggeridge, che descrivevano villaggi ridotti alla fame – venivano considerate propaganda borghese o menzogne anticomuniste- La stampa comunista italiana, in particolare «l’Unità», non solo ignorò la carestia, ma ne rovesciò la narrazione, parlando di “progressi straordinari” nella produzione agricola e di “successi della pianificazione socialista”– Le testimonianze dei sopravvissuti, raccolte dopo la caduta dell’URSS, restano il documento più potente di quella tragedia. Ogni anno, l’ultimo sabato di novembre, il paese accende candele alle finestre in ricordo delle vittime – La definizione di genocidio è ancora oggetto di dibattito accademico, ma per Kiev non ci sono dubbi: l’Holodomor fu un genocidio deliberato. Timothy Snyder, autore di Terre di sangue, scrive: “La carestia ucraina fu un atto di guerra contro i contadini. Stalin decise chi doveva vivere e chi doveva morire.”

Ma gli ucraini non dimenticano. Le famiglie conservano ancora le fotografie dei parenti scomparsi, i racconti tramandati di padre in figlio, i cimiteri di villaggio senza nomi. È un dolore che si trasmette come un’eredità. Nell’immaginario collettivo, la Russia è ancora la potenza che affamò il paese, distrusse le sue chiese, proibì la sua lingua e ne sterminò i contadini. L’odio verso Mosca nasce dunque da una memoria di sottomissione. È un rancore che unisce generazioni diverse e che rende difficile ogni tentativo di riconciliazione storica. Oggi, a distanza di quasi un secolo, quella memoria continua a bruciare. Quando gli ucraini dicono “non torneremo mai sotto la Russia”, non parlano solo di geopolitica. Parlano della fame. Parlano dei loro morti sepolti nei campi di grano.