Via dalla zona grigia

Perché la riforma del Terzo settore aiuta il positivo che c’è nel sociale

di Redazione | 11 Aprile 2015 ore 06:27 Foglio

La ricostruzione avvalorata da certuni organi di stampa secondo cui la legge delega sulla riforma di Terzo settore, impresa sociale e servizio civile approvata dalla Camera (contrari M5s, Lega e Sel, astenuta FI: buon segno) sia la legalizzazione del “metodo Buzzi” è largamente infondata. La tesi dei contrari alla riforma, annunciata da Renzi oltre un anno fa e che mette le mani in quel comparto cruciale ma confuso che è “il sociale”, è che essa metterebbe sic et simpliciter a disposizione di rapaci imprenditori travestiti da benefattori un mercato di 175 milioni di euro, che resterebbe fuori controllo. La realtà è diversa, dal punto di vista sia concettuale sia pratico. Ad esempio, è la prima volta che una legge definisce che cosa sia il Terzo settore, attraverso una definizione non solo fiscale (regimi variamente e disarmonicamente agevolati) ma anche civilistica. Finisce il regime delle concessioni, e soprattutto viene introdotta una distinzione chiara tra la finalità non lucrativa dell’impresa sociale e la possibilità di svolgere attività commerciali.

Proprio questo aspetto, se verrà attuato con intelligenza secondo lo spirito della delega, potrebbe aiutare a far uscire “da un terreno grigio e spesso elusivo la gran parte delle organizzazioni non profit che, come dice l’Istat, sono già da tempo market oriented”, come ha notato la rivista del non profit, Vita. Dunque un primo passo per prosciugare il brodo di coltura in cui sono maturati anche i recenti scandali della cooperazione. Inoltre gli enti non profit vengono ridefiniti in base all’effettivo impatto sociale e alle loro finalità non lucrative. Un settore di grande rilevanza economica e sociale inizia a darsi una forma compiuta.

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