“Prima del divorzio breve, bisognerebbe sposarsi”. E qui sta il problemaSposarsi Divozio

Categoria: Cultura

C’era una volta il matrimonio

di Antonio Gurrado e di Simonetta Sciandivasci | 29 Aprile 2015 ore 06:18

Antonio Gurrado: Non chiedo mai l’età delle donne ma deduco tu sia nata dopo il 1974: non hai la fede all’anulare. Eppure sei compiuta, piaci, sai reggere la casa e sei fertile. Perché non sei sposata? Magari pensi che sia colpa tua o degli uomini, come nei film romantici, e invece è colpa del ’74.

Simonetta Sciandivasci: Sono nata nell’85, nel ’74 c’era mia madre. Sono giovane? Non capisco se si è giovani perché tali ci si senta o si sia. Non so stirare, reggo la casa in modo sbilenco. Non sono sposata e non è una colpa, al massimo una mancanza. La sento? Certo. Tuttavia, mi manca anche non essere una rockstar miliardaria.

G: Ma la propaganda per il referendum sul divorzio era stata calibrata sui bisogni della generazione in corso senza badare alle conseguenze sulla successiva, che siamo noi trentenni mai sposati.

S: Neanch’io penso alle generazioni future, sarebbe troppo paternalista. Sono una consumista e non voglio pensarmi come un’ereditiera.

G: Se fossi nata prima del ’74, all’età di oggi avresti marito. Il battage per il no era nato come campagna di liberazione per chi era sposato infelicemente ma ha reso il matrimonio scelta sgradita ai posteri.

 S:  Il punto è che prima del ’74 al matrimonio non si pensava come a una delle strade possibili da percorrere: era una tappa, come crescere o invecchiare. Poi è diventato una scelta di cui era fondamentale riconoscere e legalizzare la reversibilità. Se fossi nata prima del ’74 e mi fossi sposata, sono certa che lo avrei fatto senza chiedermi se mi sentissi pronta. “Essere pronti è tutto”, diceva Amleto. Essere, non sentire.

G: La mia teoria è che l’istituzione del divorzio abbia avuto come effetto collaterale, dilazionato di quarant’anni, l’abolizione del matrimonio.

S: Ciò che l’istituzione del divorzio ha innescato è stata una sbornia di libertà, invece avrebbe dovuto imporci una riflessione lucida sul matrimonio. Tu vuoi parlare di chi divorzia, io di chi si sposa.

G: Chi si sposa, ormai? Stiamo iniziando ad ammuffire singoli. La linea originaria era che il divorzio sarebbe stato una porticina a fondo stanza per le fughe di emergenza. Adesso ci accorgiamo che la porta sta lì e ci guarda ammonendoci a pensarci bene; così a furia di pensarci non combiniamo niente. Temiamo che a un certo punto qualcuno posi la mano sulla maniglia, apra e se ne vada. Magari noi stessi, i convintissimi. Allora perché sposarsi, per essere lasciati? Per lasciare?

S: Ci pensiamo assoluti, liberi e non lo siamo, perché siamo finiti, vincoli viventi. Se lo ricordassimo, ci sarebbe chiaro che nessuna delle nostre scelte è assolutamente giusta, ma non per questo dobbiamo annichilirla dotandoci degli strumenti per annullarla. Credendo di guadagnare più libertà abbiamo perduto il solo mezzo per avvicinarci alla sua conquista: l’illusione. Il matrimonio, ci diciamo, si fonda su troppe illusioni: che l’amore duri in eterno, che i nostri compagni saranno sempre desiderabili e sopportabili, che non cambieremo idea. Falso. Il matrimonio si fonda sulla consapevolezza che “per sempre” è retorica e che il carburante per vivere insieme debba essere la volontà di sfidare il logoramento. Dovremmo sposarci per la stessa ragione per cui Ulisse non poteva fare a meno di viaggiare.

G: Sono circondato da sirene che esultano per l’approvazione del divorzio breve e mi sono chiesto se fosse colpa mia. Poi ho dedotto che sono state istruite a ragionare in amore come nel lavoro: cogliere il miglior offerente senza limitarsi al primo di loro, sperando sempre di trovare nel prossimo bar un principe più azzurro; avere un ruolo e un uomo all’altezza come certificato del proprio valore; sentirsi sminuite da ogni scelta definitiva, che sia condividere un talamo perenne o avere un figlio. Moriranno sole, circondate da gatti randagi e lauree incorniciate.

S: Spero di morire circondata da molti nipoti. Di recente, da un sondaggio americano sui Millennial, è emerso come la nostra generazione stia ricominciando a credere che la famiglia emani dall’amore sancito come unione indissolubile. Come siamo stanchi, tutti, dell’amore fatto alla boia d’un giuda e di sentirci in imbarazzo ad ammetterlo. Nel ’74 era necessario conquistare un diritto: dei trentenni di allora abbiamo usato la fame di diritti per saziare i nostri doveri. Mi ritrovo anch’io circondata da persone convinte di dover disporre solo di relazioni che rispecchino la loro eccellenza. La colpa è della meritocrazia, non del divorzio.

G: Diritti? Il divorzio non mi convince perché per me il matrimonio è anzitutto un sacramento: già solo le nozze in municipio mi fanno inorridire come un battesimo in tabaccheria.

S: I miei genitori si sono sposati in municipio: non credevano in Dio e mio padre indossava i jeans. Trentatré anni dopo, mia madre gli ha chiesto di sposarla in chiesa e lui ha accettato. Erano elegantissimi. Tremavano. I riti uniscono le persone, che li avvalorano.

G: Altro che avvalorarci, il divorzio breve ci renderà un po’ più scemi. Implicherà la carriera sentimentale, un’ansia di continuo miglioramento del proprio prestigio a mezzo dello status del partner, di semestre in semestre. In definitiva, la trasformazione del matrimonio da casa sulla roccia a casa sulla sabbia e la sua conseguente demolizione per il motivo che sulla sabbia la casa non regge, quindi è inutile. Rassegniamoci.

S: Io non mi rassegno a nulla, tanto meno a una proiezione. Abbiamo il dovere di vivere nel presente e di confidare nel fatto che il dominio sui mezzi educa alla loro selezione. E’ a quella selezione intima, profonda, che dobbiamo lavorare, con parole di gentilezza. Allo scatto di umanità di quella intimità dobbiamo assegnare fiducia.