Farsi giudicare fa bene alla scuola, altro che bavagli. Lezioni da Harvard

Categoria: Cultura

I risultati empirici di scuole pubbliche dello stato di New York che hanno introdotto incentivi monetari per stimolare maggiore impegno nei docenti

di Rosamaria Bitetti | 13 Maggio 2015 ore 13:55 Foglio

Roland G. Fryer ha vinto qualche giorno fa la Clark Medal, uno dei più prestigiosi premi accademici americani e ottimo predittore di futuri premi Nobel. Di solito gli accademici di successo non riempiono le pagine dei giornali, ma ciò che rende “notiziabile” la storia di Freyer è il fatto di essere cresciuto in un ghetto, e di aver avuto un’adolescenza turbolenta, segnata da vari crimini, e ciò nonostante aver avuto una folgorante carriera accademica, culminata con la tenure ad Harvard. In realtà questo sogno afro-americano è molto meno interessante della sua pagina di pubblicazioni, tutte volte a fornire dati e prove per migliorare il sistema educativo ed in particolare di ridurre il divario di rendimento scolastico fra studenti più e meno fortunati. “Il nostro obiettivo è di eliminare l’achievement gap e di chiudere bottega”, recita il mission statement del suo Education Innovation Lab. Un problema molto sentito negli Stati Uniti, ma che certo non scompare in Italia: se si incrociano i risultati dei test OCSE PISA sulle competenze degli studenti con variabili socio-economiche e geografiche, ne esce fuori che il sistema educativo italiano esaspera queste differenze di partenza invece di ridurle (Longobardi & Pagliuca, 2013). Cosa si può fare per migliorare la scuola pubblica?

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Due studi di Freyer sono particolarmente interessanti. Teacher Incentives and Student Achievement (2011) analizza i risultati empirici di scuole pubbliche dello stato di New York che hanno introdotto incentivi monetari per stimolare maggiore impegno nei docenti. Sorprendentemente, il risultato nel miglioramento dei risultati degli studenti è stato statisticamente irrilevante: in alcuni casi c’è stato un peggioramento. Gli incentivi economici non contano? Non esattamente. Questi risultati infatti contrastano con la letteratura su numerosi progetti simili in paesi in via di sviluppo, in cui gli incentivi economici individuali risultavano in una migliore performance degli studenti. Perché gli incentivi non funzionano in America? Una spiegazione avanzata da Freyer è che nelle scuole analizzate, fortemente sindacalizzate, si è deciso per un meccanismo di remunerazione di gruppo. Se gli studenti ottenevano risultati migliori nei test standardizzati, l’intero corpo docente riceveva un bonus, frazionato fra i suoi membri in base alla posizione ricoperta nell’istituto. Ma questo sistema non ha funzionato: se il premio non è obiettivo dell’azione del singolo docente ma del gruppo, si crea un incentivo a fare free-riding, aspettando che agiscano gli altri. Il collegamento fra maggior impegno e migliori risultati deve essere chiaro per motivare i comportamenti virtuosi: insomma, la carota motiva quando è grossa, in bella vista, e posso raggiungerla con i miei sforzi. Per quanto l’aspirazione ad introdurre requisiti di merito per l’avanzamento di carriera dei docenti ne La Buona Scuola sia sicuramente meritorio, è nei dettagli che si nasconde il diavolo, e i dettagli di come funzionerà questo meccanismo sono poco chiari.

Gli incentivi inoltre, non possono essere solo positivi, devono essere anche negativi. Freyer ci ricorda che è difficile identificare ex ante quali sono gli insegnanti più produttivi: si tratta di caratteristiche non osservabili. I concorsi dovrebbero selezionare quelli che le hanno, ma non sono necessariamente una soluzione, visto che non sempre chi sa sa insegnare. Chiunque abbia frequentato una scuola pubblica italiana avrà avuto almeno un professore che leggeva il giornale, o i cui metodi d’insegnamento erano tali che sarebbe stato meglio leggesse il giornale. Per questo, oltre ad una migliore selezione all’ingresso e ad incentivi chiari per chi lavora meglio, è importante sfidare anche il dogma dell’impossibilità di rimuovere dal servizio gli insegnanti con una scarsa performance.

Un aspetto implicito in tutto questo discorso è che Freyer può fare queste analisi perché ha la possibilità di misurare i risultati accademici degli studenti: per creare concorrenza, c’è bisogno di uno standard di misurazione esterna, dei test nazionali standardizzati. Per valutare l’operato dei insegnati italiani, oggi possiamo fare solo affidamento sui risultati OCSE PISA, che escono ogni 4 anni, e sui tanto bistrattati quanto poco sfruttati risultati Invalsi. La proposta di riforma del governo purtroppo parla di un Nucleo di Autovalutazione: se vogliamo premiare chi lavora meglio dobbiamo valutare il suo output, ovvero i risultati dei ragazzi, e non quanto i suoi colleghi pensano che si impegni. Sempre ipotizzando che la scuola sia pensata per dare le migliori opportunità possibili a chi riceve un’istruzione e non solo condizioni confortevoli per chi ci lavora.