La legge del desiderio. Dubbio: e se le nozze omosex non fossero una sconfitta per la chiesa,

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up to a point? In fondo, la chiesa deve pensare al sacramento. La vera questione sono i figli, che non sono diritti. La pulsione ai matrimoni tridentino-gay

di Maurizio Crippa | 28 Maggio 2015 ore 06:18 Foglio

Non solo una sconfitta dei princìpi cristiani, ma una sconfitta dell’umanità”. Così il cardinale segretario di stato Pietro Parolin. Aggiunta ad altre autorevoli voci cattoliche, è tutto quello che (sembra) ci sia da dire. Poiché Parolin è un diplomatico di prim’ordine, si deve partire dal presupposto che sappia come scegliere le parole e come collocarle nel contesto. Dire che la legalizzazione del matrimonio omosessuale è “una sconfitta per l’umanità” significa che è soprattutto di questo che si tratta. Da qui a sentirsi autorizzati a pensare che lo sia un po’ meno per la chiesa il passo è periglioso, ma lo si può rischiare. Pensare che non sia in termini assoluti una sconfitta per la chiesa, laddove le leggi degli stati, perfino ingiuste, non implicano che sia inficiato il suo pensiero o la sua teologia. La “chiesa esperta di umanità” (Paolo VI), la chiesa che, sotto un certo profilo, non si vede perché debba sentirsi minacciata dal trionfo planetario del matrimonio gay. Che senza dubbio minaccia (decostruisce, la parola esatta) la struttura di diritto greco-romano e poi tridentino del matrimonio, base sociale e legale dell’istituzione. Ma non intacca per ciò stesso la sua natura sacramentale. Del resto sono argomenti sinodali su cui la chiesa cattolica sta dibattendo ai suoi massimi livelli, tenendo conto dello “splendido brocardo” (Melloni) del cardinale Pompedda, sommo canonista, per il quale “le coppie di fatto sono un fatto”.

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 L’idea di Giuliano Ferrara di procedere attraverso un referendum propositivo alla decisione pro o contro il matrimonio tra persone dello stesso sesso – in assenza giuridica e lessicale della benché minima controindicazione nella Costituzione – è paradossale ma per certi versi ineccepibile. Se nella Carta nulla specifica per il matrimonio (neppure per la filiazione) la necessità di differenza sessuale, è perché settant’anni fa la questione non poteva essere neppure pensata. Il mondo è cambiato. Di che stiamo a discutere? Che la discussione sia divenuta inutile “dopo Francesco” è invece discutibile. Lo smantellamento della famiglia tradizionale è l’ultimo (per ora) portato della cultura atea libertina, non della misericordia di Francesco. Detto questo, per quale motivo la chiesa cattolica dovrebbe intestarsi una battaglia persa da secoli per la difesa di un’istituzione giuridica che le è connaturale sì, ma up to a point, ed esporsi a un totally unnecessary massacro, è da capire. Quando il suo problema è salvare il sacramento del matrimonio nelle condizioni storiche date. Che ne pensi lo stato italiano non è tema che pertiene al profilo dottrinale.

Ma se il referendum qualcuno lo vorrà fare, se un dibattito laico e magari civile si debba tenere, più interessante di quel che ne debba dire la chiesa è interrogarsi sulla legge del desiderio, e su ciò che ne consegue. Io, ad esempio, che voterei al referendum? Voterei no. No perché il matrimonio, nella sfera giuridico civile, è legato alla struttura stabile delegata alla generazione ed educazione dei figli. Dunque resti legato quel nome a quel ruolo. Non necessariamente sacramentale. Ma è evidente – forse qui sta la “sconfitta per l’umanità” – che la corrente di pensiero che vuole le nozze fra persone dello stesso sesso, quando non è un incrudelire ideologico e banale “contro” la tradizione, ha per scopo l’accesso alla prole. Tramite adozione o fabbricazione. In ogni caso, secondo una legge che non potendo essere naturale (uso la parola sfidando il pregiudizio) è unicamente la legge del desiderio. Nel senso che le darebbe Almodóvar. Ma i desideri non sono leggi. L’unica cosa di cui si può essere certi, senza bisogno di pensare cristianamente che siano “doni di Dio”, è che i figli non sono il termine del proprio desiderio. Né un diritto, né una compensazione, né tantomeno una “realizzazione” (realizzarsi in un figlio: la cosa più pornografica che si possa concepire). I figli sono insiti in un destino naturale che li costituisce come altro da sé. Questo è il punto d’obiezione che va difeso. E non è un problema naturaliter dei figli di Dio.

C’è un’altra cosa che mi lascia perplesso nel voler dare la dimensione sponsale tradizionale all’unione tra persone dello stesso sesso, sempre rimanendo fuori dal recinto della teologia. Alberto Melloni nel suo “Amore senza fine, Amore senza fini” nota un paradosso finale: “La rivendicazione del diritto delle persone omosessuali allo stessissimo ‘matrimonio’ che le persone eterosessuali disertano e la teorizzazione di una ‘famiglia gay’ che deve essere non solo giuridicamente ma anche lessicalmente identica a quella eterosessuale”. Fino al punto che “i favorevoli considerano accettabile solo una diversa aggettivazione dello stesso sostantivo della tradizione tridentina e non il rovescio”. C’è qualcosa che non quadra nell’ambizione di una parte del movimento omosessuale a uniformarsi allo schema tridentino del matrimonio e della famiglia, solo aggiungendovi “omosessuale”. Un’intuizione non diversa da quella di Marco Pannella, quando già anni fa affermava di non condividere le battaglie del militantismo che, dopo tanto aver lottato per una sessualità “diversa”, ora “vuole il matrimonio, poi i figli… Tutte cose che comprendo, ma sicuramente non condivido”. E più di recente: “Dobbiamo essere più ambiziosi: immaginare cioè una forma di unione che venga dopo i millenni del matrimonio, che duri di più e meglio di come succede oggi alla famiglia”. L’umanità, non la chiesa, faccia i conti con se stessa.

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