Tutti cortigiani

Ovunque vi sia un re, un capo o un padrone, là vi saranno anche servili arrampicatori. Un manuale e la lezione del Castiglione

“Cortigiano”, dipinto di scuola francese del 1607. “Della dissimulazione onesta” di Torquato Accetto è del 1641

di Andrea Marcenaro | 26 Dicembre 2015 ore 06:28

“Da natura tutti siamo avidi / troppo più che non si dovria di laude, / e più amano le orecchie nostre / la melodia delle parole che ci laudano, / che qualunque altro soavissimo canto o suono”

Baldassarre Castiglione, “Il cortegiano”

Levò la mano. “Ego te absolvo…”. Il cardinale Richelieu aveva concluso di affidare al frate contriti bisbigli. Père Joseph, come sempre da quando era diventato suo confessore, aveva ascoltato il soffio malefico di chi si voglia mondare la coscienza. Père Joseph, esortandolo, annuiva voluttuosamente. A tratti doveva lenire il penitente con lusinghe. Passabilmente anche adulare il cardinale. Lo consolava accennando a una società ammalata, sempre sul confine di malagrazie. Di peccati e crimini compiuti per necessità sociale. Il frate invariabilmente faceva cenno alla necessità di mettere in pratica le virtù che il cardinale, nel fondo del suo animo, sicuramente aveva. La confessione come trionfo della complicità adulatoria.

Père Joseph, barone de Mafflier, com’era anche conosciuto, nel 1599, rinunciando alle vanità del mondo, era entrato nei cappuccini d’Orleans, pronunciando i voti solenni. I cappuccini d’Orleans erano i confessori di re e regine. Nel 1612 Pére Joseph lo diventò di Richelieu. Mutò nell’“eminenza grigia” del cardinale. Venne a conoscenza dei segreti più oscuri di Richelieu. Soltanto quelli che l’accorto cardinale doveva aver ritenuto opportuno affidargli in confessione. Stupefacente sarebbe conoscere cosa i due si confidassero, protetti dal segreto sacramentale. Fino a qual punto il cinismo del cardinale arrivasse, sia pur con il proprio confessore. E il confessore, per accrescere la propria influenza, aver benefizi, estendere il proprio potere, lodasse, blandendo, con accorta piaggeria, l’allora padrone di Francia. Cardinale e frate sapevano perfettamente che la menzogna e l’adulazione, fin dalla notte dei tempi, erano le vocazioni primarie d’ogni individuo.

L’adulazione fa sì che anche l’uomo più diffidente si senta importante, più fiducioso. Nessuna società, nessun legame nella vita potrebbe essere gradevole o duraturo senza le forze più incredibili che vengono coniugate con l’adulazione. Nessun popolo potrebbe sopportare il suo principe, né un padrone il suo servo, né un maestro il suo discepolo, né un amico l’amico, né un ospite il suo ospite, se non si lusingassero vicendevolmente col miele della lisciatura.

Proprio alla fine della vita dei due contendenti da confessionale – Père Joseph morì nel 1638 e Richelieu nel 1642 – veniva pubblicata, nel 1641, un’operina, dovuta a Torquato Accetto, un isolato che viveva a Trani, e guardava con disappunto l’epoca sua. Aveva scritto rime con le quali evidenziava la sua delicata coscienza morale. Meditando sul conformismo e sull’ipocrisia della società del tempo, Accetto si interrogava su quale potesse essere la risposta e la reazione dell’uomo onesto costretto a vivere in mezzo a una società dai rapporti moralmente corrotti. Pubblicò allora Della dissimulazione onesta. Invitava al raccoglimento e alla cautela. Poneva la questione su un piano di accurata indagine morale. Accetto differenziava la simulazione, moralmente riprovevole perché viziata da intenzioni utilitaristiche, dalla dissimulazione, che gli pareva l’unico rimedio per difendersi da una società di simulatori. La ricetta per risultare vincente richiedeva una onestà di animo e un buon equilibrio. Accetto voleva dimostrare che la dissimulazione, quando si identifica con la prudenza e non arriva alla volgare menzogna, diventa nelle mani del saggio un’arma per difendersi dall’oppressione dei potenti.

L’illuso Accetto aveva fatto un buco nell’acqua. L’opera sua si inabissò. Ci vollero tre secoli perché riaffiorasse e fosse ristampata nel Novecento, a cura di Benedetto Croce. Ma anche in questo caso restò a livello di curiosità. La riscoperta dell’esistenza del libro avvenne però in prossimità del tempo giusto. Diciamo il nostro, in cui l’ars sviolinatoria, untuosissima, celebrabile “abitudine” dell’umano contemporaneo mondo, ha raggiunto vertici siderali. Per esorcizzare il leccaculismo, diffusosi esponenzialmente nell’età della totalizzante comunicazione, alcuni “moralizzatori”, a vario titolo, hanno dedicato operine d’intento salutistico. Con qualche recupero “classico”, proveniente dal Diciottesimo secolo come il Saggio sull’arte di strisciare ad uso del cortigiano, di Paul Heinrich Dietrich Holbach, figura dell’illuminismo radicale europeo, presentato oggi come “molto più utile a chi ‘cortigiano’ non è, che non ha sicuramente niente da imparare. Gli altri vi possono trovare l’ironica descrizione di moltissimi conoscenti dalla quale trarre motivi di amara riflessione sull’immutabilità dei meccanismi che regolano la commedia umana”. Più “attuale” Marco Travaglio, Slurp. Dizionario delle lingue italiane. Lecchini, cortigiani e penne alla bava al servizio dei potenti che ci hanno rovinati (ed. Chiarelettere). Più universalista una summa su piaggeria, servilismo, incensatura, saponata, untatura, lustratina, fregagione: Richard Stengel, You’re Too Kind: A Brief History of Flattery, titolo originale che, nella versione italiana, è stato tradotto con Il manuale del leccaculo. Teoria e storia della piaggeria (ed. Fazi), “brillante” e ruffianissima traslazione: una leccata di culo ai curiosissimi acquirenti, che mai confesserebbero d’essere anche loro catalogati in quel misterioso empireo che fa d’ogni uomo, a vari livelli, un cortigiano. A parte una naturale abilità professionale, che deve avere e gli va riconosciuta, a Stengel la divinazione della sviolinata, proprio come va il mondo, deve conoscerla perfettamente nei suoi circuiti e nelle sue variabili cadenze. Con un punta di ferina malignità, per come Stengel la esplori con così compiaciuta confidenza, si suppone che la lisciatura l’abbia esercitata con successo (dopo essere stato direttore del Time, è attualmente sottosegretario di stato per la diplomazia e gli affari pubblici nell’Amministrazione Obama). E che la sua summa su piaggeria, servilismo, incensatura, saponata, untatura, lustratina, fregagione… sia una specie di confessione per aver riconosciuto in sé l’immortale arte da lui medesimo praticata.

Un esempio folgorante di piaggeria viene enunciata nel libro di Stengel. Un avvertimento ai suoi lettori, che di fatto è una leccata di culo, nascosta dietro l’ironia in forma autobiografica. “Ci piace credere che più un individuo è intelligente, più sale in alto sulla scala del successo, e meno è vulnerabile alle lusinghe. In realtà, sembra che sia proprio il contrario. Chi ha successo, e una maggiore autostima, interpreta gli elogi nei propri confronti non come lusinghe ma come dimostrazione di sagacia da parte dell’interlocutore… Chi non riesce a sopportare gli stupidi tollera facilmente gli adulatori”. Per cui, secondo Stengel, gli adulatori non sarebbero mai stupidi. Anzi intelligentissimi. Bella botta di autostima. Tratta con la forma più elevata di piaggeria i suoi lettori, pronti ad abbagliarsi all’autoconsiderazione dell’autore, esclamando: “Com’è intelligente, lo sento così affine a me”.

Il “manuale” dell’adulazione, in ogni sua forma, è la perniciosa variabile del diffuso servilismo, per quanto ognuno, per sé, sarebbe portato a negarlo. Dilaga. E trova il suo acme tra i politici, nel clero, tra letterati, artisti, baroni d’università… fino a portinai e tranvieri, bottegai e domestici, uscieri e pubblici funzionari, implicando ricconi e reietti, primari e portantini… Rappresentazione senza copione di chi ambisca a un favore, a un avanzamento di carriera, farsi riconoscere come un possibile premio Nobel, lucrare una mancia o un posto per il figlio. Ma come riconoscere il carattere e la natura di questa strana onnicomprensiva vocazione dei viventi? Come renderla plastica per capire da dove parta e dove voglia arrivare?

Al tempo nostro, vocato all’arrampicata sociale a ogni costo (ascenderemo fino a impiccarci) e alla generalizzata esibizione, non ha senso alcuno dare conto della natura della piaggeria. Non la si spiega. Sta sotto gli occhi d’ognuno. Ci pervade. Forse la si intuisce nell’insana e ovvia curiosità di svelare folgoranti carriere, insediamenti di cretini a posti di responsabilità, assistere a presenze di analfabeti nei giornali, alla radio, specie in televisione. E siccome il vizio non si perde mai, assistere all’esibito leccaculismo di certi anchorman di stratosferica fama. Vederli come vezzeggiano gli ospiti, per essere ricambiati, specie in scriteriate trasmissioni. “Abbiamo tra noi il più importante e celebre scrittore italiano”. “Ho l’onore di presentarvi la più famosa vedette”. E giù un nome da rabbrividire. Gente di potere dalle dubbie carriere. Tipi celebrati dalla vita costellata di cadaveri.

Facce di bronzo note per le più trucide malefatte. Tipi leccati come straordinari, eccezionali, insuperabili. E poi, giacché è di gran moda pubblicare libri, scriventi senza talento che si sono arrampicati sulle classifiche, per avere sviolinato l’editore, flattato l’ufficio stampa, incensato per la sua eccezionale bravura il giornalista che recensisce il loro “sonoro e sublime” capolavoro letterario. Apparire, vellicare… Onore dell’ostensione: il ruffianissimo presentatore accoglierà la vedette nella sua celebrata trasmissione, dove si lecca il “personaggio”: sfileranno campioni di ogni genere di trovata, una nuova letteratura, tra scrittura sgangherata e canzonette stonate, cuochi e affini, ministri illetterati che scrivono romanzi, “personaggetti”, madame che raccontano il proprio ciclo mestruale… Il presentatore, dal suo scrannetto da maestrino, a suo turno sarà slinguato per la “nota intelligenza” e la “stratosferica simpatia”… E’ la filosofia esistenzialesibita contemporanea. Squadernata senza pudore e malcelato orgoglio, dopo salti mortali sul trapezio dell’adulazione con incensate a un potente che ha spianato la strada a chi è emerso, a chi è famoso, a chi fa parlare di sé in ebdomadari scalerci, mostrati al popolo che imparerà (ma già lo sa) e ci metterà del suo, come ci si muova nel mar merda della piaggeria, individualmente votati a ottenere er mejo, ruffianandosi a ogni occasione, con lo scambievole saponoso complimentarsi pur d’ottenere non si sa proprio cosa. Il leccaculismo ormai più che una necessità è un vizio. Una vocazione sociale. Propalata dall’eccesso del comunicare, dove ognuno, in un ossessivo scambio di esaltazioni vien conclamato magnifico, eccellentissimo, splendido. Il gioco ai quattro cantoni delle star della fregnaccia. Un empireo di leccate di culo. Per cui si finisce col non essere più in grado di riconoscere il paziente merito cui vengono continuamente inflitte umiliazioni.

La “malattia” è sempre esistita. L’adulazione fa parte del nostro patrimonio genetico e, “miracolo”, come specie, ci ha probabilmente consentito di sopravvivere fin dalle età preistoriche. Dalla notte dei tempi attraversa storie di religioni e civiltà. Addirittura contempla l’amore adulatorio per il Dio geloso dell’Antico testamento.

Ma lasciamo perdere. Meglio affidare noi stessi a una dimensione illusoriamente più adeguata. Che comunque rende scivolosa ogni certezza. A uno specchio. Perfido. Un terribile confronto. Che suscita una ferale domanda. Dove, come, in che occasione ho adulato? Per ottenere che cosa? L’adulazione è la forma più perniciosa di conformismo. Può consolare il fatto che Platone inveisse contro la piaggeria, ritenendo che le lusinghe fossero una forma particolarmente nociva e pericolosa. Sosteneva che far moine indica accattivarsi le simpatie con gesti leziosi e affettati. Spargere fumo può denotare l’uso di un linguaggio ampolloso, per ovviamente propiziarsi favori: le celebrate lodi, panegirici, agiografie, blandizie, allettamenti. Ed è qui che la laccata di culo sconfina nella letteratura. Conduce a tutti quei colendissimi, cui opere celebrate furono dedicate con svolazzanti piaggerie a principi, re, pontefici, dittatori. Non se ne può più di questa parade. Eppure… Dall’antico Egitto a tutte le Camelot sparse per i secoli, fin all’empireo Microsoft, ovunque vi sia un re, un papa, un padrone, un capofazione, un boss, vi sarà anche una corte di disposti a qualunque leccata per una fettina di potere e di prestigio. Stupefacente come la cortigianeria, storicamente parlando, abbia toccato il suo apogeo in uno dei periodi più risplendenti per intelligenza e creatività: il Rinascimento, con le sue corti. Sentine di piaggeria. La grande bellezza sarebbe allora frutto dell’intrigo? E i burocrati d’antica progenie, hélas!, eternamente soliti, membri della gerarchia del potere, che si divertono a esprimersi in modo criptico con gli esclusi e gli estranei. Chi è meno sicuro del proprio posto si preoccupa sempre di occultarlo e preservarlo. Una massoneria di intoccabili votati alla conservazione di se stessi attraverso le più sottili forme della cooptazione. Ed è qui che si scatenava prepotentemente la pratica del leccaculismo.

Oggi, a uso di chi volesse rendere scientifiche le modalità del servilismo cui applicarsi per ottenere er mejo senza impegno e fatica – sempre che leccare il culo al potente non si intenda qual “lavoro” quotidiano – si consiglia un’esemplare summa sul mestiere del lusingatore: Il cortegiano di Baldassarre Castiglione . Un “recensore” del tempo commentava risentito l’opera di Castiglione che, tutto sommato, cercava di separare l’adulazione dalla fedeltà al principe, insomma raddrizzare le gambe ai cani con l’ausilio della forma letteraria: “Di questi cortegiani oggidì trovansi assai, perché in poche parole voi messer Castiglione ci abbiate dipinto un nobile adulatore”.

A cui Castiglione eccepì: “Voi vi ingannate assai, perché gli adulatori non amano i signori né gli amici, il che io vi dico che voglio che sia principalmente nel nostro cortegiano; e ’1 compiacere e secondar le voglie di quello a chi si serve si po’ far senza adulare, perché io intendo delle voglie che siano ragionevoli ed oneste”. Per Castiglione è il cortigiano stesso a dover distinguere ciò che è adulazione da ciò che è un semplice e ragionevole e degno elogio. Tant’è. Due facce della stessa medaglia: l’adulatore e l’adulato. Complici della medesima perniciosa perversione.

Categoria Cultura

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