Utero in affitto, come volevasi dimostrare

Categoria: Cultura

Adozione per due “papà” a Roma. Perché alla fine decidono i giudici

di Maurizio Crippa | 21 Marzo 2016 ore 20:28

Quando la scuola era ancora la scuola, si andava alla lavagna e dopo averla riempita di formule e cifre ci si girava verso la professoressa con le fatidiche parole: “Come volevasi dimostrare…”. Ora che, dopo tante polemiche e tante presunte precisazioni e limitazioni concettuali e procedurali la legge sulle unioni civili è stata approvata – ma “senza” la stepchild adoption –, interrogati alla lavagna della cronaca non resta che ripetere l’antica formula: “Come volevasi dimostrare”. Che potrebbe suonare anche come un più banale: ve l’avevamo detto. Il tribunale dei minori di Roma lo scorso 31 dicembre – i giudici sono sempre avanti rispetto al Parlamento, signora mia – ha emesso una sentenza “storica”, riconoscendo l’adozione (i famosi “casi particolari”, previsti dall’articolo 44 della legge 184) di un bambino a una coppia di uomini. I quali, va da sé, il bambino lo hanno ottenuto grazie a una maternità surrogata (utero in affitto non lo si può dire, no, ché tutti sono contro l’utero in affitto) in Canada, sei anni fa.

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E’ la prima volta per una coppia di “papà”, e anche la prima volta in cui la sentenza non viene appellata dalla procura minorile, dunque è definitiva. La coppia di professionisti romani, che aveva fatto richiesta di adozione nel giugno 2015, non è la prima a vedersi riconosciuto il diritto, ci sono già state due coppie di “mamme” ad aver affrontato l’iter. La novità giurisprudenziale è che in questo caso l’iter è già concluso e la sentenza immediatamente esecutiva. La stepchild adoption che normalizza un figlio nato attraverso una pratica in Italia ancora vietata e che la recente legge Cirinnà ha escluso – e tutti hanno a parole escluso – è oggi una realtà a tutti gli effetti. Non è nemmeno il caso di specificare che il tribunale dei minori di Roma ha così deciso nel superiore interesse del bambino, cioè quello di rimanere con i due “papà” che lo hanno generato e finora cresciuto.

Il “come volevasi dimostrare” di cui sopra, non è ovviamente una messa in discussione del “superiore interesse” del bambino, come formalizzato dalla legge sulle adozioni, e nemmeno del buon cuore e dei sentimenti (stabili) dei due uomini. Vuole essere semplicemente un modo per ribadire quanto da questo giornale – e non solo da noi – più volte sostenuto. E cioè che la normalizzazione ope legis della stepchild adoption per le coppie omosessuali – in natura non in grado di procreare – avrebbe aperto la strada alla maternità surrogata, per quanto non ammessa dalle leggi italiane e attorno alla quale è tuttora in corso un dibattito politico e scientifico. E soprattutto che in assenza di un confronto culturale serio e di una decisione politica chiara (un referendum, sì) a decidere alla fine sarebbero stati i giudici. Molto democratico.

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