Dini: “Ecco perchè il salvataggio delle banche venete lascia seri dubbi”

Categoria: Economia

La lettera dell’ex premier al Direttore La Stampa 12.7.2017

Caro direttore,

 l’intervento pubblico nella liquidazione delle due banche venete impone la necessità di riesaminare criticamente l’intera vicenda; esame reso obbligato dal volume delle risorse dei contribuenti in gioco, ma non meno necessario se si ha a mente stabilità ed efficienza del nostro sistema finanziario.

Alcune incongruenze, mancate spiegazioni, debolezze dell’intero processo emergono immediatamente.

Anzitutto: il 23 giugno scorso, la BCE ha dichiarato che le due banche venete fallite o probabilmente fallite; il Single Resolution Board, investito della questione, ha dichiarato che non ricorrono rischi sistemici, e ha rinviato la liquidazione delle due banche alle procedure italiane di insolvenza. Entrambi hanno fatto risalire l’emersione della situazione di difficoltà delle due banche alla valutazione della qualità degli attivi condotta nel 2014. Non vi è chi non veda che il tempo trascorso è troppo lungo. Chiunque si sia occupato di crisi bancarie sa bene che, a partire dal momento nel quale le difficoltà emergono, le perdite accelerano in modo esplosivo. Il tempo che le autorità hanno impiegato per giungere a una soluzione condivisa ha accresciuto enormemente il volume delle risorse necessarie.

Per la precisione, nel frattempo le autorità nazionali avevano spinto le banche italiane a intervenire nel salvataggio delle due venete, attraverso il Fondo Atlante, con un investimento di circa 3,5 miliardi di euro. Al tempo, le autorità dichiararono solennemente che il problema poteva considerarsi risolto. Si scopre ora che quell’investimento viene azzerato; e che le risorse effettivamente necessarie sono pari a quasi 5 volte quelle allora mobilitate. La credibilità delle autorità ne viene, a dir poco, gravemente indebolita. E per la stabilità del sistema finanziario la credibilità delle autorità ha un peso determinante.

La soluzione oggi prescelta fa carico al contribuente dell’intero volume dei prestiti obbligazionari senior, non subordinati, delle due banche. Si tratta di una scelta discutibile, che non appare sufficientemente motivata. Chi è preposto a verificare l’eventuale presenza di rischi sistemici, che giustifichino interventi di questo tipo, è il Single Resolution Board. Che, come ricordato, ha dichiarato che quei rischi nel caso in esame non esistono. Sono stati invocati dal Governo rischi per l’economia regionale. Ma, considerato le risorse pubbliche di cui si discute, sarebbe necessario qualche spiegazione in più. Si aggiunga che quelle obbligazioni, ancora non più tardi di un mese or sono, venivano scambiate sul mercato a un prezzo prossimo al 75% del nominale. Ora verranno rimborsate per intero; poiché offrono cedole piuttosto elevate, dopo l’emanazione del decreto recante l’intervento pubblico quotano sul mercato oltre la pari. Ciò vuol dire che chi le ha comprate sul mercato un mese fa realizza un utile del 40%, a spese dei contribuenti. Cosa giustifica una scelta così radicale? Chi le ha acquistate sul mercato sapeva bene di pagarle così poco a causa del rischio che incorporavano. Perché premiarlo, con soldi pubblici, in questa misura? Qualche risposa in più appare indispensabile.

Infine, le modalità con le quali si è scelta la controparte appaiono anch’esse discutibili. E’ stato citato, anche dal prof. Giavazzi su questo giornale, il caso del Banco di Napoli. Occorre però ricordare che allora nel decreto legge che disponeva l’intervento pubblico furono rese chiare le condizioni alle quali sarebbe andato incontro chi fosse intervenuto nella “good bank”, e fu prevista una procedura competitiva per sceglierlo. Oggi si dice che la procedura competitiva si è già svolta, “anche sulla base di trattative a livello individuale”. Forse però non a tutti i potenziali interlocutori era chiaro che lo Stato non solo si sarebbe fatto carico di tutti i crediti cattivi, anche di quelli che emergeranno nei prossimi tre anni, ma avrebbe anche fornito il patrimonio necessario per fronteggiare i normali rischi insiti nei prestiti “buoni”. Anche qui c’è qualcosa da spiegare meglio.

Le questioni poste non esauriscono certo il novero dei temi da discutere. Andando indietro, occorrerebbe chiarire meglio perché nel 2012 l’Italia scelse di non ricorrere ai finanziamenti europei a sostegno della capitalizzazione delle banche, sostenendo che non ve ne era alcun bisogno. Abbiamo pagato quella scelta con il più drastico razionamento del credito di cui si abbia memoria, gravemente pagato dalle imprese e tradottosi in un drammatico calo degli investimenti. Quel che è seguito testimonia quanto quei fondi europei ci sarebbero stati necessari.

Guardando al futuro, occorre interrogarsi su cosa fare, ammesso che qualcosa sia ancora possibile fare, per riavviare il percorso di costituzione di una vera Unione bancaria, dopo che, con le sue scelte, l’Italia ha scoraggiato partners di per sé riottosi.

Discussioni non facili. Ma, almeno riguardo al presente, si diano ai contribuenti le risposte alle quali hanno diritto.

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