Ben vengano le misure per i giovani, ma che siano pensate sul lungo periodo

Categoria: Economia

Norma anti licenziamento e 300.000 nuove assunzioni, due non-notizie spiegate e uno spunto su come ripensare la struttura del mercato del lavoro

di Francesco Seghezzi 27 Agosto 2017 alle 06:04 

Che l’Italia sia un paese per vecchi non è una novità. Lo è invece che si stia rafforzando la consapevolezza di questa situazione. E infatti il leitmotiv del dibattito agostano è stato proprio quello dell’occupazione giovanile e delle misure che potrebbero entrare nella legge di Bilancio relative a questa urgenza.

 

La principale dovrebbe essere una decontribuzione triennale, fino a 3.250 euro annui, dei contratti a tempo indeterminato per gli under 29 (o 32) assunti. Questa decontribuzione dovrebbe poi ridursi a un taglio di 4 punti e diventare strutturale. Gli annunci dei giorni scorsi hanno previsto 300.000 nuove assunzioni con questi incentivi, dato che serve soprattutto a una parte del governo per giustificare al Mef lo stanziamento di almeno 2 miliardi. Il tema è interessante, fosse anche solo per aver messo per un attimo in secondo piano l’eterna discussione sulle pensioni. Ma il modo in cui si sta affrontando sembra lasciare sullo sfondo i veri nodi della condizione occupazionale dei giovani per concentrarsi su non-notizie. Due in particolare. La prima riguarda quella che è stata comunicata come la norma anti licenziamento. Leggendo i giornali, sembrerebbe che la nuova decontribuzione sia legata a una clausola che rende difficile il licenziamento dei nuovi assunti, e questo non può che preoccupare le imprese. Ma si tratta appunto di una notizia che non lo è. La norma in questione riguarda semplicemente l’impossibilità di licenziare un lavoratore giovane assunto con gli incentivi del 2015 per poi riassumerlo con quelli del 2018. Una disposizione ragionevole, ma presente in tutte queste forme di incentivi. La seconda non-notizia riguarda invece proprio i 300.000 giovani che dovrebbero essere assunti nel prossimo anno. Qui ritorna l’eterna confusione tra nuovi contratti e nuovi occupati. Non è detto infatti che nuovi contratti incentivati corrispondano a una crescita dei lavoratori, in quanto non vi è alcuna clausola che imponga un aumento dell’organico per beneficiare della decontribuzione.

 

Ma al di là di questi limiti di comunicazione (voluti o meno), il tema è più ampio. E riguarda la differenza tra misure a lungo termine e altre a breve termine. Pensiamo ad esempio al rapporto di questi incentivi con il programma “Garanzia Giovani”. Questo ha contribuito ampiamente alla proliferazione dei tirocini che spesso e volentieri si reiterano e non portano a un lavoro, oltre che mancare in molti casi di una vera formazione. Il piano è stato rifinanziato e le nuove norme sui tirocini raddoppiano la loro durata, da 6 a 12 mesi. Sembra quindi esserci una contraddizione tra norme che facilitano i tirocini e altre che spingono sui contratti a tempo indeterminato. Un primo passaggio utile sarebbe quello di unificare in una visione chiara per i giovani e per le imprese tutti questi incentivi. Ma ancor più urgente è far funzionare il mercato del lavoro, non si può pensare di continuare a forza di incentivi triennali che, semmai diventassero strutturali, lo sarebbero in modo ampiamente depotenziato, vista la scarsità di risorse. Il cambio di passo potrebbe essere quello di incidere non solo sui costi (che vanno tagliati e con prospettiva) ma sulla struttura stessa del mercato del lavoro, per liberare le energie disponibili e valorizzarle.

 

E proprio alla luce di questa considerazione emergono però tanti nodi ancora aperti, che non si risolvono aggiungendo nuove misure. Pensiamo soprattutto alla difficoltà di decollo dell’apprendistato, unico contratto che considera la formazione dei giovani come un investimento, e che risulterà fortemente penalizzato dalla nuova decontribuzione, che spingerà a una polarizzazione tra contratti a tutele crescenti e tirocini. In questo senso la decontribuzione non incide sulle difficili dinamiche della transizione scuola-lavoro, risultando come una scorciatoia che aggira il problema e non avvia una strada per risolverlo. Le imprese saranno spinte ad assumere giovani alla luce del vantaggio fiscale, ma questo non toccherà le ferite scoperte del nostro mercato del lavoro, che potranno tranquillamente ripresentarsi, ulteriormente infettate, dopo il triennio. In questo, oltre all’apprendistato e al rapporto con la scuola, è fondamentale il ruolo dell’assegno di ricollocazione, ancora oggi considerato misura emergenziale e non uno strumento strutturale per accompagnare anche i giovani in un lavoro che è sempre meno un posto e sempre più un percorso. Ben vengano quindi interventi sui giovani, ma non sarebbe male far funzionare al meglio quanto già avviato, pensando ai prossimi 20 anni e non solo al prossimo triennio