Crisi energetica Lo spettro della deindustrializzazione minaccia l’industria europea

Categoria: Economia

Chiusure, taglio della produzione, riorganizzazione dei turni produttivi, delocalizzazione. Sono gli scenari con cui si trovano a fare i conti gli Stati Ue in seguito all’emergenza degli idrocarburi e alla carenza di materie prime causata dal conflitto tra Russia e Ucraina

Chiara Proietti Silvestri 9.2.2023 World Energy limkiesta.it lettura7’

Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul numero 55 di We – World Energy, il magazine di Eni

Il bilancio di fine anno del 2022 non è dei più positivi. Sull’energia, due dati storici resteranno impressi nella memoria: i 316 €/MWh raggiunti il 26 agosto dal prezzo all’ingrosso del gas sulla borsa olandese TTF (considerato il mercato di riferimento per l’Europa continentale) e il 44,3 percento di inflazione energetica nell’Eurozona raggiunto a marzo, in reazione all’aumento dei prezzi energetici successivo allo scoppio del conflitto russo-ucraino. Numeri che mostrano una economia europea sotto pressione. Una crisi energetica senza precedenti, l’incertezza geopolitica e un’inflazione a livelli record stanno, infatti, mettendo a dura prova il potere d’acquisto dei consumatori e la tenuta delle imprese. Le industrie energivore, in particolare, sono le più vulnerabili a costi dell’energia difficilmente sostenibili al punto tale che molte sono costrette a chiudere. Si inizia ad assistere ad una fase in cui prezzi elevatissimi determinano una “distruzione” della domanda per gli usi produttivi, con il rischio di deindustrializzazione che si fa sempre più consistente.

La crisi energetica

L’andamento dei prezzi del gas è lo specchio degli eventi più dirompenti che hanno caratterizzato il 2022. L’invasione russa dell’Ucraina all’alba del 24 febbraio è stata lo spartiacque che ha aggravato un quadro energetico già critico, caratterizzato da forti squilibri tra domanda e offerta. I prezzi, già elevati a partire da luglio 2021, si erano appena stabilizzati sotto quota 100 €/MWh quando sono iniziati gli scontri. Con un conflitto armato alle porte dell’Europa, i primi pacchetti di sanzioni verso la Russia e il progressivo venir meno dei volumi di gas russo, la sicurezza degli approvvigionamenti ha iniziato a suscitare una profonda preoccupazione in Europa con effetti a catena sull’intero mercato globale del gas. E i prezzi hanno ricominciato ad aumentare.

Poi, i timori di un completo blocco dei flussi dalla Russia – ricordiamolo, primo esportatore di gas naturale in Europa con una quota pre-conflitto del 40 percento sulle importazioni UE – e la corsa dei Paesi europei a riempire gli stoccaggi in vista della stagione invernale hanno aperto la strada ad un’ulteriore impennata dei prezzi fino al picco di agosto. Il risultato è stato una crisi energetica di portata globale, considerata la più grave di sempre. A partire dal mese di settembre, il trend si inverte: dopo aver toccato la punta più alta il 26 agosto con la cifra record di 316 €/MWh e una media mensile di 234 €/MWh, i prezzi spot del gas sulla piattaforma TTF iniziano a scendere portandosi a 76 €/MWh nel mese di ottobre, fino a toccare il minimo giornaliero di 23,7 €/MWh il 1° novembre. Bisogna tornare al 18 giugno 2021 per trovare quotazioni più basse. Una boccata d’aria per le famiglie e le imprese europee. Tuttavia, questa bonanza si è rivelata connessa a fattori del tutto congiunturali: temperature insolitamente miti, disponibilità di gas naturale liquefatto, siti di stoccaggio pieni. Ha pesato, inoltre, il crollo dei consumi industriali dovuto alla chiusura di stabilimenti e imprese sotto il peso di costi insostenibili.

Se inizialmente, infatti, il calo dei consumi industriali poteva essere riconducibile ad un fuel switch, al passaggio cioè a combustibili alternativi al gas naturale, con il prolungarsi della crisi si affaccia lo spettro della deindustrializzazione. Tanto più che alla fine di novembre e primi di dicembre i prezzi del gas hanno ripreso a correre, superando la quota di 130 €/Mwh.

I contraccolpi all’economia europea

In controtendenza rispetto alla prima metà dell’anno, più dinamica grazie ad un graduale processo di normalizzazione della vita economica e sociale post-pandemia, l’economia europea è entrata, a partire dal terzo trimestre, in una fase molto meno favorevole. Lo confermano le ultime previsioni sul PIL europeo, rilasciate dalla Commissione Europea in autunno, che hanno rivisto al ribasso la crescita per il 2022 rispetto alle previsioni di primavera (+3,3 percento vs +5,4 percento). Un quadro che inficia anche il clima di fiducia delle imprese europee, che restano pessimiste sulle prospettive economiche. Da febbraio, l’indicatore del sentiment economico (ESI) per l’Eurozona – risultato del sondaggio su imprese e consumatori – è sceso al di sotto della media storica, segnale di un deterioramento della fiducia dell’economia europea.

A novembre (ultimo dato disponibile), si è accentuata l’erosione della fiducia delle imprese manifatturiere, rispetto ad un leggero miglioramento lato consumatori. Un dato che segue l’andamento reale dell’industria manifatturiera europea, in contrazione dal terzo trimestre dell’anno. A partire da luglio, l’indice PMI manifatturiero dell’Eurozona (che misura il livello di attività dei responsabili degli acquisti) è sceso sotto la soglia di espansione, anche se i tassi di declino della produzione e dei nuovi ordini sono risultati a novembre (ultima misurazione disponibile) meno aggressivi rispetto a quelli record osservati in ottobre.

Negli ultimi mesi, le maggiori associazioni dell’industria europea hanno manifestato ai vertici delle Istituzioni UE le proprie preoccupazioni per il futuro delle aziende dei settori energivori, lanciando l’allarme sul rischio di deindustrializzazione. Ricordiamo che l’industria europea dà lavoro a 35 milioni di persone, circa il 15 percento della popolazione attiva, ed è responsabile per il 30 percento della domanda complessiva di gas. Quella energivora – acciaio, carta, cemento, ceramica, chimica, alimentare, fonderie, vetro – da sola rappresenta l’87 percento dei consumi industriali di gas ed è quindi quella più esposta all’attuale crisi energetica.

Le stime mostrano che il 70 percento della produzione di fertilizzanti in Europa è stata interrotta o rallentata, colpendo anche le produzioni a valle come le materie plastiche e l’industria alimentare e delle bevande. Il 50 percento della capacità produttiva europea di metalli di base come alluminio e zinco è andato perso. Si sono verificate riduzioni anche per l’acciaio, la carta, la ceramica, il vetro. A pesare è anche la carenza di materie prime fondamentali per alcuni processi produttivi a causa del conflitto russo-ucraino. Il settore della ceramica, ad esempio, lamenta una scarsità dell’argilla proveniente dalla regione ucraina del Donbass. Inoltre, le restrizioni alle importazioni dalla Russia hanno colpito i mercati di alluminio, nichel, palladio e vanadio; così come è stato colpito il commercio del cloruro di potassio, un input essenziale nella produzione di fertilizzanti.

Chiusure, taglio della produzione, riorganizzazione dei turni produttivi, rischio delocalizzazione sono gli scenari con cui si trova a fare i conti l’industria europea. Molte aziende sono corse ai ripari puntando a ridurre il più possibile i consumi energetici attraverso ottimizzazione dei processi, uso di energie alternative e soluzioni creative. Dai turni anticipati all’alba, alla sostituzione di macchinari più efficienti, fino alla dotazione di guanti e cappotti per fare a meno del riscaldamento in fabbrica questo inverno. Al di là delle misure d’emergenza, servono risposte concrete dalla politica. Il rischio di portare alla chiusura un numero sempre più alto di imprese industriali o che queste si trasferiscano fuori dall’Europa, con aggravamento della dipendenza da paesi terzi, è elevato, con conseguente perdita di posti di lavoro, crollo della competitività e acuirsi di tensioni sociali.

Le prospettive di breve termine

Le aspettative per il futuro non sono rosee, influenzate da deboli condizioni della domanda, pressioni inflazionistiche e tensioni geopolitiche. Si torna a leggere la parola “recessione” nei comunicati della Commissione Europea che ribadiscono come il rischio sia ormai realtà per molti stati membri, nonostante la crescita complessiva europea sia ancora prevista in positivo (+0,3 percento nel 2023 e +1,6 percento nel 2024). Dal punto di vista energetico, preoccupano le pressioni sui prezzi di un mercato del gas “corto” a cui si aggiungono potenziali tensioni sul fronte petrolifero. La decisione di ottobre dell’OPEC+ di tagliare la produzione di petrolio di 2 milioni di barili al giorno (bbl/g) si somma all’entrata in vigore dell’embargo del petrolio russo il 5 dicembre che dovrebbe togliere dal mercato europeo circa 3 milioni bbl/g.

L’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) ha lanciato un campanello di allarme sul futuro delle forniture per il prossimo anno, il che lascia presagire che la crisi energetica non si esaurirà nel 2023. L’anno che si appresta ad iniziare parte in salita, anche se meno ripida di quanto inizialmente immaginato. Le temperature autunnali straordinariamente miti hanno permesso di risparmiare gas e mantenere gli stoccaggi su livelli ancora elevati rispetto al periodo; quel che dovrebbe permetterci di superare l’inverno in arrivo senza situazioni eccessivamente critiche. Occorre, però, programmare l’inverno 2023-2024 che sarà il vero banco di prova della tenuta del sistema energetico europeo.

In uno scenario di azzeramento dell’offerta di gas russo, le risposte della politica europea dovranno essere convincenti e coordinate, per evitare i rialzi dei prezzi occorsi durante la competizione al riempimento degli stoccaggi di questa estate. Vi è poi la carta fondamentale del contenimento dei consumi di energia che può fare la differenza, specialmente in un contesto di scarsità di offerta come quello che stiamo vivendo.

Ad oggi, la politica si è concentrata sulle misure per contenere la spesa delle forniture energetiche e tutelare il potere d’acquisto di famiglie e imprese. Tuttavia, se riportare a livelli sostenibili il costo dell’energia è doveroso, è essenziale farlo senza stimolare la domanda con politiche di premialità del risparmio che ancora faticano a decollare. Le misure per affrontare una crisi di tale portata necessitano di dialogo e coordinamento a livello comunitario per fare in modo che gli interventi più razionali diventino best practice per tutti, salvaguardando il tessuto sociale e imprenditoriale europeo. Il rischio di andare da soli è che soltanto i paesi con maggiore capacità fiscale riescano a superare indenni l’emergenza, lasciando indietro tutti gli altri. E se un’Europa a due velocità può avere il suo senso, un’Europa zoppa è uno scenario che non conviene a nessuno.

Chiara Proietti Silvestri è analista di politica energetica internazionale presso il RIE (Ricerche Industriali ed Energetiche). Si occupa di analizzare le dinamiche economico-politiche inerenti le principali questioni energetiche globali, tra cui: lo sviluppo dell’energia nucleare, l’impatto delle fonti fossili non convenzionali, i processi di consensus-building. Collabora alla stesura di rapporti sui trend di investimento e sugli scenari energetici globali; ha pubblicato diversi articoli in testate specializzate su tematiche di sicurezza energetiche, soprattutto relativamente al Mediterraneo Orientale.