Libiamo, libiamo ne' lieti calici a Pan: l’Europa ha abolito la schiavitù delle quote latte

Categoria: Economia

Novello Teocrito, a Pan dedicherò idealmente otto libagioni di latte per celebrare la fine di una schiavitù inflitta dall’Europa

di Alessandro Giuli | 31 Marzo 2015 ore 06:05 Foglio

Novello Teocrito, a Pan dedicherò idealmente otto libagioni di latte per celebrare la fine di una schiavitù inflitta dall’Europa matrigna ai nostri allevatori: le così dette quote. Chi ha dimenticato le immagini del nettare bianco versato nelle strade per protesta? E poi le inchieste, le multe, le procedure d’infrazione… brutti ricordi che si dissolveranno a partire da domani. E’ particolarmente bello che il divieto cada il 1° aprile, che nel calendario romano è dedicato a Venus verticordia, colei che volge il cuore delle donne all’Amor casto (la castità è uno stato dell’essere, non va intesa come rinuncia ma come decoro). E’ una festa speciale chiamata Veneralia: come ci ricorda Ovidio, nel medesimo giorno le matrone e le vergini romane si recano presso il santuario di Venere per decorarne la statua con fiori e monili; mentre la grande parte delle altre donne – meretrici comprese – usa lavarsi nei bagni pubblici accanto agli uomini, ma coprendo la propria intimità con rami di mirto, pianta sacra alla Madre degli Eneidi, in onore della Fortuna Virile. L’intero universo femminile accoglie così la forza di un principio benefico che si modella a seconda delle destinatarie. A prevalere è tuttavia l’aspetto più alto e puro dell’essenza venerea, e qui mi soccorre l’epigrama XIII dell’amato Teocrito (traduzione di Marina Cavalli):

Questa Cipride non è Pandèmia. Invoca la dèa / sotto il nome di Urania: la casta Crisògona l’ha consacrata, / qui nella casa di Anficle, il padre dei suoi figli, / il suo compagno. E ogni anno per loro è stato prospero, / perché nel nome tuo l’hanno iniziato, o regina: / felici i mortali che hanno cura degli Dei.

In occasione dei Veneralia le nobildonne romane bevono latte con fior di papavero macinato, lo fanno per arieggiare il ricordo della bevanda con la quale Venere Urania ha consacrato le sue nozze con il fuoco della stirpe simboleggiato da Marte/Vulcano. Il latte ci richiama, inevitabilmente, alla dimensione della maternità e a quella del nutrimento. Il nome stesso di Roma, non proprio quello segreto ma quasi, deriva dal radicale etrusco RVM da cui provengono la parola mammella, Ruma, e Rumon: il nome originario del Tevere che in effetti – come indica anche il verbo greco rèomai, scorro – fluisce nelle sue innumerevoli anse curvilinee, disegna dolci mammelle al centro dell’Urbe e dona a lei il suo colostro equoreo  (per comprendere la personalità di una civitas o di un villaggio, è indispensabile studiarne i corsi d’acqua).

Latte di capra, latte di pecora, latte di vacca da cui ricaviamo i vaccini che salvano i neonati dai morbi funesti: ampia è la gradazione del più sano fra i liquori offerti dalla natura.

Molti anni fa, nel suo libro intitolato “L’unità della natura” (1937), lo studioso pitagorico Evelino Leonardi scriveva che “il pio bove… rumina con un movimento della bocca molto simile a quello del bambino che succhia il latte dalla ruma, dalla mammella. Donde tutto un nuovo senso del mito di Romolo e Remo succhianti il latte della Lupa – all’ombra di un ficus rum-inalis!, aggiungerei – Mito universale riprodotto dagli sperduti antichi su questa terra italica, cui il volere degli Dei aveva conferito il primato geografico su tutto l’occidente”. Versati nella scienza del sacro più d’ogni altro popolo, i Romani hanno anche assegnato a un nume femminile chiamato Rumina la funzione di proteggere le femmine allattanti e rendere turgidi i loro seni. Mi piace pensare che questa benevola presenza sia rischiarata dalla decisione europea.

Europa è una vergine rapita da Giove incarnatosi in un toro bianco, dunque a suo modo una giovenca, poi fecondata dal sovrano degli Dei sotto un platano nella città cretese di Gortina (un discendente di quel platano è ancora lì a ricordarcelo). Quando il console Quinto Cecilio Metello conquistò la città nel 67 avanti l’èra volgare, stabilì di farne la capitale della provincia di Creta, memore di un antichissimo legame tra Roma e l’isola di Minosse. Sarà forse un caso, però Massimo Bontempelli si è avvicinato a cogliere questo legame in un suo racconto metafisico del 1941 intitolato “Viaggio d’Europa”: nel corso del rapimento, la fanciulla assiste al rito della Fenice che s’incendia con il Sole nascente per poi rinascere fulva e radiosa dalle proprie ceneri. E’ la visione allegorica di Ruma Aeterna, biancolattea vestale di un fuoco inestinguibile.

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