Cosa bolle per Bolloré. Un po’ salvatore, un po’ Murdoch europeo

Categoria: Economia

 Perché il capo di Vivendi è finito al centro del risiko italiano. ecco il magnate che riuscirà a contrastare Rupert Murdoch in Europa realizzando il progetto che da un quarto di secolo è solo un sogno: la convergenza tra contenitori e contenuti, tra tv, internet, editoria, cinema e telecomunicazioni, tra nuovi e vecchi media, tra pubblicità e finanza.

di Stefano Cingolani | 16 Aprile 2015 ore 12:46 Foglio

Vincent Bolloré. A 63 anni e con una nuova fidanzata non più segreta (della giovane mannequin Vanessa Modely ha scritto persino France Presse) può vantarsi di aver salvato l’eredità paterna

Chiunque scriva su Vincent Bolloré è sempre tentato di gettare la palla avanti. Ecco l’uomo che aiuterà Silvio Berlusconi a sistemare l’eredità, collocando Mediaset e Mondadori in un grande gruppo internazionale; ecco il finanziere che bilancia le banche nel salotto buono di Via Filodrammatici; l’investitore che toglie dai pasticci Telecom Italia dopo il divorzio con gli spagnoli di Telefonica. Oppure, proiettandosi al di là delle Alpi, ecco il magnate che riuscirà a contrastare Rupert Murdoch in Europa realizzando il progetto che da un quarto di secolo è solo un sogno: la convergenza tra contenitori e contenuti, tra tv, internet, editoria, cinema e telecomunicazioni, tra nuovi e vecchi media, tra pubblicità e finanza.

Progetti, ambizioni, ma cosa c’è di concreto? Le mosse degli ultimi mesi confermano che sotto il fumo cuoce parecchio arrosto. E forse tutto sarà più chiaro domani, venerdì 17 aprile, giorno in cui si terrà l’assemblea di Vivendi convocata all’Olympia, la mitica sala da concerti parigina. L’appuntamento è delicato visto che Bolloré, presidente e principale azionista, è sotto il tiro dei fondi di investimento irritati perché non sono stati distribuiti abbastanza dividendi, allo scopo di mettere da parte un gruzzolo consistente per nuove avventure. Il fondo americano Psam, che possiede poco meno dell’un per cento, ha ottenuto che vengano pagati ben 2,7 miliardi in più. Ma persino il più piccolo socio vuol sapere come saranno impiegati i 4 miliardi e mezzo di euro a disposizione per acquisizioni strategiche anche in Italia dove Vivendi è già il primo azionista industriale di Telecom, avendo preso l’8,3 per cento della spagnola Telefonica.

In Francia, Bolloré è protagonista di punta nel risiko dei media e ha messo nel mirino anche Hachette che fa capo a Lagardère, grande fornitore di aerei e armi all’Armée e a mercanti di mezzo mondo. Di qua dalle Alpi ha interpretato molte parti nella commedia dell’alta finanza, ma sempre con un ruolo di spalla. Adesso potrebbe diventare primo attore. Lo vuole davvero? E con quale spartito? E’ sbarcato in Mediobanca nel 2002 mentre era in corso la battaglia per il dopo Cuccia. Arrivò chiamato da Vincenzo Maranghi, introdotto dal suo vecchio mentore Antoine Bernheim, socio della banca Lazard che faceva da sponda a Mediobanca. Ma poi ha cambiato fronte e ha trattato con Cesare Geronzi e Alessandro Profumo che hanno defenestrato Maranghi. Grazie al produttore e finanziere franco-tunisino Tarak Ben Ammar, s’è avvicinato a Silvio Berlusconi. E’ entrato nelle Assicurazioni Generali per sostenere Bernheim che poi ha scaricato (come poi ha fatto con lo stesso Geronzi). Ha stretto un accordo con la Pininfarina in crisi nera, per produrre un’auto elettrica, la Bluecar: adesso viene costruita in Francia da Renault e va ad alimentare il circuito urbano del car sharing Autolib.

A 63 anni e con una nuova fidanzata non più segreta (della sua storia con la giovane mannequin Vanessa Modely ha scritto persino l’agenzia ufficiale France Presse) può vantarsi di aver salvato l’eredità paterna (nel 1981 con l’aiuto dei Rothschild e di Bernheim) per costruire un gruppo molto più grande con una struttura famigliare davvero all’antica, portando progressivamente al timone i quattro figli di primo letto: Cyrille sarà il successore, Yannick presiede Havas, la figlia minore Marie è in consiglio di Mediobanca, mentre il primogenito Sébastien, che non ha il talento per governare, è lo stratega nelle nuove tecnologie. Bolloré è passato dalla carta per le sigarette alla haute finance. La sua ricchezza, stimata da Forbes in 7 miliardi di dollari, è ramificata in un vero e proprio impero fatto di miniere e piantagioni in Africa, trasporti, logistica, produzione di batterie al litio e auto elettriche. Ma la vera ambizione è diventare il più importante magnate dei nuovi e vecchi media in Europa accanto a Rupert Murdoch da un lato e al gruppo tedesco Bertelsmann dall’altro.

Con Vivendi il bucaniere ha conquistato una vera portaerei. Il gruppo francese di telecomunicazioni nato dopo lunghi e tortuosi travagli dalla vecchia Générale des Eaux (acquedotti e gas) era rimasto senza una mano forte e Bolloré lo ha scalato. Nel giugno dello scorso anno è diventato presidente; oggi è anche l’azionista di riferimento con il 12 per cento (l’ultimo pacchetto lo ha acquistato ai primi di aprile) seguito da BlackRock, Société Générale, Amundi (sussidiaria di Société Générale e di Crédit Agricole) e Caisse des dépôts et consignations (la Cdp francese). Fin dall’autunno ha preso di fatto il comando e ha imposto una sterzata. Innanzitutto ha fatto scorporare Sfr, secondo gruppo telefonico francese, per poi venderlo ad Altice posseduta da Patrick Drahi, il “re del cavo”, rampante imprenditore delle telecomunicazioni. Il secondo passo è stato passare a Telefonica Gvt, uno dei principali operatori nelle telecomunicazioni in Brasile, ambito anche da Telecom Italia. E gli spagnoli hanno pagato in parte con le azioni del gruppo italiano che avevano in portafoglio.

ARTICOLI CORRELATI  Basta baruffe sulla banda larga  Da Hillary a Soros, quell’aristocrazia venale ancora stregata da Piketty  L'Italia del non sviluppo tecnologico

 Le cessioni hanno fatto incassare 13 miliardi di euro: anche se una parte entrerà solo quest’anno, si tratta di una liquidità enorme, pari all’intero fatturato del gruppo, con utili per ben 4,7 miliardi, confermando il nomignolo di re del cash flow con il quale Bolloré è conosciuto nella finanza internazionale.

Un mago della finanza, dunque, ma la sua strategia è davvero coerente? Prima ha spinto Vivendi fuori dalla telefonia, poi è rientrato dalla porta sul retro in Telecom Italia? Come mai? Il telefono non è il suo core business, però l’uomo d’affari francese ha già spiegato che vuole essere protagonista “nell’inevitabile consolidamento del settore”, cioè nella girandola di fusioni e acquisizioni che coinvolge già l’intera Europa. Dunque, è merce di scambio preziosa.

La grande caccia punta sui media, in particolare i nuovi come Dailymotion, un sito che fa concorrenza a You Tube nell’Hexagone. Bolloré controlla già Havas, uno dei maggiori gruppi mondiali nella pubblicità, e intende prenderne il controllo totale. Vivendi possiede Canal Plus, numero uno nella tv a pagamento in Francia, e Universal Music, una delle tre major discografiche (con Warner e Sony). Ma guarda anche alla carta stampata, a cominciare dal settimanale l’Express, testata piccola seppur prestigiosa.

Mai nella sua vita il finanziere francese ha fatto capire le proprie intenzioni, scommettendo sempre sull’effetto sorpresa. Avvenne quando fece una incursione clamorosa in Lazard e poi con Mediobanca. Anche lo scossone in Vivendi, rovesciata come un guanto, ha preso tutti alla sprovvista. Dunque, è davvero azzardato provare a indovinare. Le voci che corrono negli ambienti finanziari è che l’Italia possa offrire una importante occasione nel mercato televisivo. Perché Canal Plus è solo una bella nicchia (ha uno share del 4 per cento) e Vivendi non possiede una tv in chiaro sia via etere sia digitale.

Il gruppo Berlusconi non ha la potenza di fuoco di un tempo. Mediaset è una bella azienda, però sta soffrendo la crisi (è tornata in utile nel 2013 dopo aver chiuso in rosso il 2012) e ha una cultura molto tradizionale, tanto che deve rafforzarsi in tutto l’universo internet. Inoltre, nonostante i vari tentativi di sbarcare all’estero (quello spagnolo è l’unico davvero riuscito) rimane un’azienda italocentrica.

Si è parlato di nuovo (lo si fa ormai da dieci anni) di un patto se non addirittura di una fusione tra Telecom e Mediaset. Operazione complessa e politicamente sensibile. Allo stato attuale sembra improbabile che possa ottenere il via libera. Ma ben diverso sarebbe un accordo su ampia scala con Vivendi. “Dobbiamo inventarci qualcosa di nuovo, come abbiamo fatto negli anni 80”, s’è lasciato sfuggire Fedele Confalonieri. L’offerta per le torri televisive della Rai, comunque finirà (probabilmente con una joint-venture), è una tappa della più grande riconversione.

Mediaset ha bisogno di una svolta. Con ricavi di 3 miliardi e mezzo di euro, la sua taglia è troppo piccola per far fronte ai colossi internazionali. Le voci su possibili alleanze e matrimoni hanno fatto salire il valore di Borsa (la capitalizzazione s’aggira sui 5,5 miliardi) e a Piazza Affari la voce ricorrente è che Vivendi sia il promesso sposo. I rumors di un interesse per Sky che Murdoch vuole riorganizzare in tutta Europa sono stati smentiti da Arnaud de Puyfontaine, amministratore delegato del gruppo francese, perché “troppo costosa”. Intanto Sky ha stretto un accordo con Telecom per distribuire i suoi programmi in fibra ottica. Le trattative per Premium si sono arenate. E c’è chi dice che Berlusconi possa trattare una pax televisiva con Murdoch, forte dei diritti per la Champions League dei prossimi tre anni. “Siamo in fase fluida in cui tutti parlano con tutti”, fanno sapere i portavoce dei protagonisti. Una formula che si usa quando sta maturando un coup de théâtre.

Canal Plus, Mediaset, Sky offrono contenuti. Telecom Italia è un contenitore e può distribuire la tv attraverso la banda larga (sia in rame sia in fibra ottica). E’ proprio questo il nucleo base della convergenza. Ma bisogna investire tanti quattrini sia nei contenuti sia nel contenitore oggi chiaramente inadeguato. Il mercato italiano, del resto, è troppo piccolo e parrocchiale per essere davvero profittevole. Ecco perché non basta stringere accordi sul prodotto, ci vuole a monte un soggetto dalle spalle larghe e dalla taglia internazionale, capace di scegliere e mobilitare risorse.

Bolloré ha aumentato la sua posizione pure in Mediobanca: è già il secondo azionista e può salire fino all’8 per cento, cioè allo stesso livello di Unicredit. A sua volta Mediobanca è ancora socio di Telecom nel cui consiglio siede Tarak Ben Ammar, anche se Alberto Nagel, amministratore delegato di Mediobanca, intende vendere la quota ormai inferiore al 2 per cento. L’azienda telefonica italiana è piena di debiti, i ricavi sono in discesa, mentre incombe l’incognita sulla banda larga e il passaggio dal rame alla fibra ottica (dovrebbe avvenire solo nel 2030, però bisogna cominciare a investire). Dunque non è esattamente una mucca da mungere, tuttavia può servire da leva. Ci sono stati abboccamenti con Orange (la ex France Télécom ancora controllata dal Tesoro, fattura 41 miliardi ossia tre volte Telecom Italia) e tutti negano che sia stato deciso qualcosa. Tanta carne, anche troppa, bolle nel pentolone di questo pot-au-feu. Non basta un grande chef, ci vuole un maître sapiente.

Inutile nascondere che là dove c’è da costruire il consenso, nell’universo dei persuasori,  la politica gioca un ruolo determinante. I legami di Bolloré sono soprattutto a destra. Amico di Nicolas Sarkozy e di Carla Bruni che invita nel suo yacht, è un conservatore che frequenta la chiesa anche se divorziato e fascinoso tombeur des femmes. La sua seconda moglie è l’attrice e scrittrice Valérie Jeanneret, ma proprio questo mese ha presentato agli intimi la frizzante Modely. Il figlio Yannick ha sposato la nipote di Martin Bouygues, patron del più grande gruppo di costruzioni e del primo canale televisivo, da sempre un pilastro dei neogollisti. In Italia Bolloré è vicino a Berlusconi, però se vuol giocare a tutto campo deve diventare trasversale. Le capacità di manovra non gli mancano, un bretone sa affrontare i rapidi mutamenti del vento oceanico, lo ha dimostrato negli affari dove ogni volta ha mollato quelli che gli avevano aperto la porta, come Bernheim, o nella stessa Vivendi dove ha fatto fuori Jean-René Fourtou. Ben Ammar è rimasto, invece, al suo fianco, con lui condivide il progetto multimediale e ha partecipato anche alla trattativa con Telefonica.

La sponda italiana ha provocato a Bolloré anche qualche brutto incidente tanto da essere condannato dalla Consob (una multa di 3 milioni e l’interdizione per 18 mesi da ogni carica) per le operazioni finanziarie con le quali nel 2010 ha cercato di salvare il gruppo Ligresti coinvolgendo la compagnia francese Groupama. Baciare pantofole non è nello stile del francese, in genere è sempre accaduto il contrario. Eppure, bon gré mal gré, dovrà trovare un canale con il presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Molti sostengono che può aiutarlo Giuseppe Recchi, presidente di Telecom che ha buoni agganci nel milieu renziano. Tuttavia, quando la giostra comincerà a girare, non mancheranno certo le occasioni per rapporti meno indiretti. Negli affari come nella vita, la chimica personale conta spesso più dei quattrini.

Renzi si mostra aperto all’intervento di robusti investitori stranieri in Italia. Deve fare i conti, in ogni caso, con una forte corrente protezionistica. Informazione e telecomunicazioni sono attività considerate ovunque, anche negli Stati Uniti, sensibili se non proprio strategiche. Non bastano le autorità indipendenti a tutelare gli interessi nazionali; tanto meno se sono in ballo le televisioni che rappresentano il principale collegamento con la più ampia opinione pubblica (e lo saranno ancora a lungo). Basta ricordare che quando conquistò la 20th Century Fox, l’australiano Murdoch dovette prendere il passaporto statunitense.

Nel 1999 Silvio Berlusconi stava sul punto di vendere Mediaset proprio allo “Squalo” e fu Massimo D’Alema, allora presidente del Consiglio, a proclamare il Biscione “patrimonio del paese”. Quanto a Telecom Italia, nel 2006 Marco Tronchetti Provera trattava l’ingresso di Murdoch o in alternativa di Time Warner e General Electric, informò l’allora capo del governo Romano Prodi il quale “auspicò” che il controllo restasse italiano. Ne venne fuori il pasticcio Telco con banche, assicurazioni e Telefonica. I tempi non sono poi così cambiati. Il caso Ilva, per quanto diverso, dimostra che Renzi non ci pensa due volte a mettere in campo lo stato per affrontare una crisi irrisolvibile altrimenti. Bolloré lo sa bene; quanto a Ben Ammar, naviga da troppo tempo lungo le coste della penisola. E a lui, che faceva da ufficiale di collegamento tra Craxi e Arafat, Matteo ricorda tanto Bettino.

<< >>