Marchionne, mago o imbroglione?

Categoria: Economia

Il ceo di Fiat-Chrysler ha compiuto un miracolo, lo riconosciamo. Ma c’è un ma grosso come una casa, e non riguarda solo la sua offerta di matrimonio a General Motors (rifiutata): la pesante debolezza patrimoniale e il fattore T

di Massimo Mucchetti parlamentare PD | 10 Agosto 2015 ore 17:02 Foglio

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Al direttore - L’altro ieri Sergio Marchionne ha rilanciato l’idea di fondere FCA e GM rispondendo alle domande di Francesco Guerrera per la Stampa. Il chief executive officer di FCA giustifica il rifiuto opposto dalla casa automobilistica di Detroit alla sua proposta di matrimonio con una classica figura retorica americana: “E’ difficile invitare il tacchino al pranzo del Ringraziamento”. Il caporedattore del Wall Street Journal sta conducendo per il quotidiano di FCA un’interessante inchiesta sull’America che cambia allo scopo di ricavarne suggestioni utili all’Italia. Non poteva mancare il salvatore della Chrysler. Mi sarei aspettato che Guerrera incalzasse il suo editore chiedendogli se il tacchino fosse FCA o GM. E poi ancora, se a guidare la combined entity dovesse essere lui, Marchionne, o la sua collega di GM, Mary Barra, ovvero un terzo campione. Questioni premature? Mica tanto. Tutti sanno che è sulle poltrone, e sui quattrini e il potere che girano loro attorno, che si giocano i merger a Wall Street, e pure da noi se è vero che Cesare Romiti impedì le nozze già annunciate tra Fiat e Ford Europe perché, dopo i primi anni nei quali sarebbe stata affidata a Vittorio Ghidella, la direzione del nuovo gruppo sarebbe passata agli americani. Ma Guerrera non ha insistito. Anziché approfondire il ruolo del governo nell’economia industriale sulla base della storia e della cronaca, ha preferito chiedere a Marchionne uno statement politico sull’Italia ricavandone un brillante invito a rischiare sul nuovo. In tal modo la Stampa ha lasciato ad altri lo spazio per approfondire la strana proposta di matrimonio che FCA ha mandato in giro per il mondo: a GM, ma anche ad altri che fossero interessati.

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Ora, che Marchionne abbia compiuto un miracolo per i soci di FCA non lo nega nessuno. Secondo i calcoli che abbiamo fatto in Senato per la ricerca di Unioncamere-Prometeia sull’Automotive in Europa, la sua gestione ha regalato un rendimento medio annuo del 27 per cento rispetto al costo del capitale investito all’esordio. Che FCA stand alone possa reggere a lungo mi pare, invece, dubbio. E questa incertezza dovrebbe forse interessare anche il governo italiano. Già immagino quali amabili prese per i fondelli verranno da Marcenaro nella sua Andrea’s Version, ne riderò di gusto con lui, ma i fatti sono fatti.

L’Automotive è un settore cruciale della manifattura. In Italia vale il 5 per cento del prodotto interno lordo. In Germania addirittura l’11 per cento. Negli Usa, se ne occupa la Casa Bianca. Guerrera commette un’omissione piuttosto seria quando parla solo dei crediti concessi alla nuova Chrysler, gestita dalla Fiat, e sottolinea come questi prestiti siano stati interamente restituiti, ovviamente pagando gli interessi adeguati alla loro natura di junk bond. Tutto vero, ma il collega americano avrebbe anche dovuto ricordare che il contribuente americano ha finanziato pure la liquidazione della vecchia Chrysler, separata dalla nuova all’atto del salvataggio, perdendoci 1,3 miliardi di dollari. Negli Usa il governo entra ed esce dalle imprese che salva. Ma lascia l’obolo. Nell’auto ha impegnato 80 miliardi di dollari e, al netto degli interessi che costituiscono il servizio del debito, ne ha persi 16. Uno spreco, un errore? No. Un “investimento”. Il fallimento disordinato di Gm e Chrysler sarebbe costato di più. Ma i soldi sono soldi. Ed è sempre bene aver presente da dove vengono e dove vanno.

Ora, perché ho qualche dubbio sulla tenuta futura di FCA? Non ha appena presentato, questo gruppo, una semestrale d’oro come titola il Corriere? In effetti, i conti al 30 giugno 2015, chiudono con un utile netto di 425 milioni di euro su ricavi pari a 56 miliardi. Il miglioramento percentuale è forte, ma tutto dipende dal termine di paragone. Nello stesso periodo, Volkswagen ha ottenuto un utile netto di 5,5 miliardi su ricavi pari a 108 miliardi. E GM? GM fa 2 miliardi di dollari di utile su 74 miliardi di ricavi. Dunque, molto meno redditizia del colosso tedesco, ma nettamente meglio di FCA.

In un mondo dove, nel 2020, si arriverà a produrre 103 milioni di auto rispetto agli attuali 89 milioni, il problema di FCA non è tanto la taglia, ma la fragilità patrimoniale e la difficoltà strutturale a generare redditi sufficienti a pagare le spese in ricerca e sviluppo necessarie per reggere le sfide globali. Come ha documentato Fulvio Coltorti, direttore emerito dell’Area studi di Mediobanca, discutendo in Senato la ricerca di Unioncamere-Prometeia sull’Automotive in Europa, FCA spende solo il 2,6 per cento del fatturato in ricerca e sviluppo e si colloca così in coda alla graduatoria degli 11 grandi gruppi automobilistici internazionali. Volkswagen, il primo, spende il 6,5 per cento, BMW, il secondo, il 5,7 per cento, Honda, la terza, il 5 per cento… Eppure, data la sua gamma, FCA genera un margine operativo non male, pari a quasi il 4 per cento dei ricavi. Volkswagen fa un margine del 6,3 per cento, per intenderci. Ma perché, poi, l’utile della casa italo-americana scivola allo 0,7 per cento dei ricavi mentre quello della major tedesca sta su un rotondo 5 per cento? La risposta è semplice: pesano gli oneri finanziari. FCA continua ad avere troppi debiti. Con una certa ignoranza, molti giornali d’informazione continuano a vantare la liquidità di FCA, poco più di 21 miliardi di euro. Dimenticano che questa liquidità deriva da debiti onerosi contratti con le banche e con gli obbligazionisti. Certo, se derivasse da utili non distribuiti, la liquidità renderebbe, magari poco in termini unitari, ma renderebbe. E’ il caso di Volkswagen, ma anche di GM per quanto la casa di Detroit benefici anche dei fondi del governo. Ma accendere debiti e tenere poi il contante o il simil contante in cassa ha un costo netto elevato. FCA, infatti, paga interessi passivi nettamente superiori al modesto rendimento della liquidità. Per FCA questa liquidità rappresenta una polizza contro eventuali sue insolvenze reclamata dai mercati finanziari. Una polizza che sarebbe bello non dover sottoscrivere. Del resto, allargando l’analisi ai 17 principali gruppi automobilistici internazionali, Coltorti nota come il capitale investito di FCA mostri la qualità più scarsa: più o meno metà è fermo in liquidità, metà immobilizzato in avviamenti e una frazioncina investita in attività produttive. Il capitale di Nissan, Honda, Hyundai, Toyota, BMW, Kia, Daimler, Renault è investito quasi solo in attività produttive. Volkswagen ha un po’ di avviamenti, ma dietro c’è la scalata alla Porsche, non quella che il grande banchiere Enrico Cuccia chiamava “fuffa”. D’altra parte, come ha documentato sempre Coltorti, i profitti sono legati agli attivi produttivi.

La fragilità patrimoniale di FCA, sulla carta, può essere superata in due modi: o con un aumento di capitale, ma lo stesso Marchionne avverte che l’auto dà ritorni incerti e modesti sul capitale che si investe ora, e dunque le emissioni azionarie diventano un genere improbabile, oppure con la riduzione graduale del debito attraverso la destinazione a patrimonio di una parte rilevante degli utili, ma sacrificare i dividendi – in un’azienda operante in un settore che i mercati finanziari classificano maturo – penalizzerebbe il titolo, con quel che segue. Di più: la riduzione graduale del debito richiede anni e non è detto che Marchionne abbia abbastanza tempo. Questo è il punto: il tempo, il fattore T.

Il conto economico di FCA è sostenuto dal mercato americano, da cinque anni ormai in splendida ripresa. Il Brasile, che offrì un gran supporto al consolidato Fiat negli anni passati, è fermo. E l’Europa? La buona notizia è che il cambio dell’euro favorisce le esportazioni, la cattiva è che nell’elettronica, componente sempre più rilevante nel determinare la qualità dell’auto, esiste un gap tra le auto italiane e le tedesche o le orientali, e tra le rispettive componentistiche, difficile da colmare. La domanda cruciale è dunque una sola: quanto durerà ancora l’espansione della domanda di automobili in Nord America? Gli esperti dicono un anno, massimo due. A meno di rotture tecnologiche tali da accelerare il normale tasso di sostituzione delle vetture, da riportarci tutti ai fasti della prima motorizzazione. E qui pesano ricerca e sviluppo. Sfortunatamente, FCA non ha granché sulla nuova frontiera delle green car, e questo nonostante il governo Usa abbia dato alle case automobilistiche basate negli States incentivi importanti per la ricerca e sviluppo che al contribuente costano 2,5 miliardi di dollari. Ecco perché Marchionne insiste con il merger. Non è una bizzarria. Il ceo di FCA ha uno o due anni di tempo per riuscire ad accasare FCA. Insomma, il tacchino di cui all’intervista con Guerrera, sembra proprio essere FCA. Marchionne scommette sul fatto che un tale tacchino possa risultare utile a qualcuno. Ma adesso sarà meglio cambiare metafora. A suo tempo, Marchionne diceva: “Parliamoci chiaro, ho avuto in mano due ragazze che non erano proprio due bellezze e dovevo portarle in società abbellendole senza avere i soldi per il sarto e il parrucchiere…”.

Riconosciamolo, finora Marchionne è stato un mago. E se nel tempo che gli rimane riuscirà a trovare un marito a FCA, passerà alla storia e farà felici gli azionisti, già premiati con le azioni Ferrari. Che possa far felice anche l’Italia, questo è un punto diverso: dipende da chi sarà questo marito, da quali gradi di sovrapposizione si avranno o non si avranno con i centri produttivi e i centri di ricerca italiani, da quali integrazioni industriali e commerciali saranno possibili nel segno dello sviluppo e non della mera acquisizione di una scala maggiore allo scopo pur corretto di ridurre i costi unitari. Me ne rendo conto. Sono argomenti noiosi di fronte allo storytelling dell’America e dell’Italia, prese così, a volo d’uccello. E tuttavia governare un’azienda o un paese significa, prima di tutto, fare di conto. Come insegnava il banchiere umanista Raffaele Mattioli ai dirigenti della Comit e anche a quelli, duri d’orecchi, del Pci togliattiano. Per questo, il governo dovrebbe tener d’occhio la torta che Marchionne ha messo nel forno. E, nel frattempo, fare di tutto per avere in Italia altri costruttori.

Massimo Mucchetti, Pd, è presidente della commissione Industria del Senato

Commenti

1-      Roberto Cattani • 3 giorni fa

Massimo Muchetti (61 anni), già “vicedirettore ad personam del Corriere della Sera”, cioè che vicedirigeva solo se stesso, ora fa il senatore ad personam, cioè solo per se stesso, e non perde occasione per illuminarci sui suoi dubbi ad ampio spettro. Ora sul Foglio rispetto all’operato di Marchionne, con una “eccezionale” analisi sul mercato mondiale dell’auto (non gli scappa nessuno: FCA, WW, GM, Ford, Nissan, Honda, Hyundai, Toyota, BMW, Kia, Daimler, Renault), ricavata da una ricerca di Unioncamere-Prometeia sull’Automotive in Europa, nientemeno, che qualcuno è andato a raccontare in quell’asilo che è la Commissione Industria-Commercio-Turismo del Senato (avete visto i membri?). In plurime altre occasioni su giornali vari e in televisioni varie sui risultati elettorali di “Renzi”, sulla nuova legge della scuola, sull'osservanza della disciplina di partito e la libertà di “coscienza” (sic!) dei parlamentari, sulla riforma costituzionale, sull’Italicum, sul Bundesrat e la nostra repubblica che non vuole essere federale, sul PD che ha indebolito la sua capacità di coalizione sull'altare del bipartitismo, sulla destra a trazione leghista, su Tory e Tea Party e Le Pen, sulla spaccatura tra regioni settentrionali e il resto d'Italia, ecc. ecc.. Il tutto alla ricerca dello zero assoluto in politica. Chissà che non ci scappi un Nobel per la fisica.

2-      Davide SCarano • 4 giorni fa

Strano Mucchetti, vuole l'intervento pubblico e poi si lamenta (si legge tra le righe) dei soldi spesi dallo Stato Americano. Vorrebbe che le industrie investissero di più ma i suoi compagni di partito, alla guida di numerosi comuni italiani, aumentano le tariffe dei parcheggi e riducono i livelli di velocità fino a livelli "poco decorosi" (penso ad esempio alle zone 30 all'ora di recente introduzione) rendendo sempre più complicato l'uso della propria auto.

Queste sono le contraddizioni proprie di chi vorrebbe sostituire la libertà di iniziativa economica di ciascuno di noi all'azione "illuminata" dei regolatori.

Per l'Italia vi è poi una particolare controindicazione: non vi sono risorse sufficienti per fare politica industriale visto che il debito pubblico italiano è tra i più alti dell'Occidente.

3-      Moreno Lupi • 4 giorni fa

Il confronto con case automobilistiche, con salda, costante, continua presenza sul mercato ad alti livelli, Volkswagen, BMW, Honda, Nissan, Hyundai, Toyota, Kia, Daimler, operanti in realtà socio/politiche/economiche e contesti di pubbliche amministrazioni efficienti, con un bambino di un anno e mezzo, la FCA. E' nata compiutamente, maggio 2014, da una Fiat distrutta dal pervicace consociativismo/assistenzialista che ne aveva bloccato ogni creatività e da sindacati ideologicamente avversi all'impresa privata e da una Chrysler in crisi industriale e produttiva. Ecco, il confronto equivale, che so, a quello tra Federica Pellegrini, e una nuotatrice convalescente. E' palesemente assurdo e strumentale. Tutti i dettagli finanziari, patrimoniali sciorinati non fanno altro che confermare l'intento di minimizzare l'intervento di Marchionne. Anzi di ironizzarci sopra. Massimo Muccheeti, laurea in filosofia, deluso dal giornalismo s'è dato alla politica, è senatore del Pd e appartiene all'area della minoranza dissidente che vuole levarsi di torno Matteo Renzi. Ha fatto bene il Foglio a dare spazio alla sua lettera al direttore. Parlando liberamente ha messo in evidenza il suo livore. Se pensava di mascherarlo con tutti quei contorcimenti lessicali e interpretativi e finanziari e con dubbi apparentemente asettici, bene, non c'è riuscito. Per lo meno con me e, sono certo, neppure coi lettori del Foglio. Prima Ezio Mauro, poi Massimo Mucchetti, bene così, visto come si spogliano