Perché in banca le sedie traballano

Categoria: Economia

C’era una volta il bancario dal posto sicuro e ben pagato. Grazie al fatto che nel settore non esisteva la concorrenza e ogni banca aveva il suo compito. Da allora tutto è cambiato. E se per gli addetti la vita è più difficile, per la clientela ci sono stati benefici. Cosa ci riserva il futuro.

6.12.15 Angelo Baglioni, La Voce info

C’era una volta il bancario dal posto sicuro e ben pagato. Grazie al fatto che nel settore non esisteva la concorrenza e ogni banca aveva il suo compito. Da allora tutto è cambiato. E se per gli addetti la vita è più difficile, per la clientela ci sono stati benefici. Cosa ci riserva il futuro.

Un tranquillo mercato domestico

C’era una volta il bancario. Era il tranquillo impiegato o funzionario di banca, che faceva sempre le stesse cose. Arrivava alla mattina in ufficio e aggiornava il timbro per mettere la data sui moduli. Affilava le forbici per tagliare le cedole dei titoli di Stato. Oppure guardava un po’ i conti di un’impresa alla quale la banca aveva fatto un prestito, e magari alzava il telefono per chiamare il titolare e chiedere qualche spiegazione. Se gli andava bene faceva il dirigente, cioè prendeva le pratiche che una segretaria aveva depositato sulla sua scrivania in una cassettina con scritto “entrata”, le firmava e le metteva in un’altra cassettina con scritto “uscita”. Insomma, la vita del bancario non era eccitante, ma si guadagnava bene e il posto era sicuro.

Oggi è tutto diverso. Chi sta allo sportello deve convincere la clientela a comprare prodotti finanziari che lui stesso non capisce. Deve fare finta di sapere dove sta andando l’economia, non solo quella italiana, ma anche quella dei paesi più lontani, perché c’è il cliente che vuole investire sui mercati asiatici. Chi dirige deve fare i conti con regole sempre più complesse e in continua evoluzione. Deve rendere conto a nuove autorità, spesso internazionali. Il posto di lavoro non è più sicuro come una volta, almeno per le nuove leve; e soprattutto molti posti sono stati persi.

Ma cosa è successo nel frattempo? Tante cose.

Il bancario tipo lavorava nelle banche come le conoscevamo fino all’inizio degli anni Novanta, quando c’era ancora la “foresta pietrificata”. Si chiamava così perché l’apertura di nuove filiali bancarie era rigidamente governata dalla Banca d’Italia, che la programmava con i “piani sportelli”, che ci richiamano alla memoria i piani quinquennali delle defunta Unione Sovietica. Il sistema era suddiviso in diversi tipi di banche, ognuna con i suoi compiti: le banche commerciali facevano i prestiti a breve termine, mentre gli istituti di credito speciale pensavano a quelli a lungo termine. Poi c’erano le banche popolari o cooperative. La concorrenza non era di casa: la rigida separazione e la spartizione del mercato assicuravano che nessuno andasse a invadere il campo altrui. Né le autorità si curavano che le banche si facessero concorrenza tra di loro, pensando che ciò avrebbe minato la loro sicurezza. Non si poteva neanche immaginare che una banca estera potesse portare un po’ di aria nuova nel tranquillo mercato domestico.

Essere al riparo dalla concorrenza aveva due conseguenze, una buona e una cattiva: dipende dal punto di vista. Dal lato del bancario, era una pacchia. Le banche potevano fare lauti profitti grazie alla differenza tra i tassi d’interesse che facevano pagare ai loro debitori e quelli che loro stesse pagavano ai depositanti: il cosiddetto “margine” era ampio e stabile. Questo consentiva alle banche di avere un eccesso di personale, che quindi poteva permettersi di non ammazzarsi di lavoro, e di pagarlo bene. I sindacati dei bancari avevano vita facile a chiedere consistenti aumenti di stipendio a ogni rinnovo contrattuale. Ma tutto questo aveva un risvolto negativo, se visto dal lato della clientela. Un margine più ampio vuol dire che chi riceve prestiti (imprese e famiglie) paga un tasso d’interesse più alto e chi deposita i suoi risparmi in banca riceve un tasso d’interesse più basso. Non solo, ma cambiare banca può essere difficile e anche poco conveniente, visto che tutte applicano più o meno le stesse condizioni.

Come tutto è cambiato

Durante gli anni Novanta il panorama è cambiato, anche sotto la spinta dell’Europa. La spartizione del territorio e la rigida distinzione tra tipi di banche sono stati abbandonati. Sono nate la cosiddette “banche universali”, che possono offrire una vasta gamma di prodotti finanziari: prestiti su tutte le scadenze, servizi di gestione del risparmio, prodotti assicurativi. Sono state aperte le frontiere, consentendo alle banche europee di venire a fare concorrenza a quelle italiane. Successivamente, sono state introdotte misure per facilitare il trasferimento dei depositi e dei mutui da una banca all’altra. Il vento della concorrenza ha così iniziato a soffiare, rendendo la vita del bancario meno tranquilla.

La maggiore concorrenza ha via via ridotto il famoso margine sulla tradizionale attività di raccolta di depositi e concessione di prestiti. La compressione dei costi è diventato il primo imperativo della gestione bancaria, al prezzo di forti riduzioni di personale e retribuzioni, in particolare per le nuove leve, meno protette dei loro colleghi più anziani. Il secondo obiettivo è stata la ricerca di nuove fonti di ricavo: principalmente servizi di gestione del risparmio (come fondi comuni e polizze) sui quali guadagnare commissioni anziché interessi. Questo implica che il nostro bancario diventa sempre di più un venditore di prodotti: sapere fare le operazioni tradizionali non basta più, bisogna convincere il cliente che il prodotto finanziario della propria banca è migliore di quello offerto da un altro istituto. Se tutto ciò ha complicato un po’ la vita del bancario, ha anche portato qualche beneficio alla clientela, proprio grazie alla riduzione del margine d’interesse e ai nuovi servizi offerti.

Poi è arrivata la crisi finanziaria, e allora la vita è diventata più complicata per tutti: banche e clienti. La fase iniziale della crisi, esplosa nel 2007, ha risparmiato le banche italiane, meno esposte di altre alla finanza innovativa, i famosi prodotti derivati. Quando però la crisi ha investito il settore reale dell’economia, generando fallimenti a catena, anche le nostre banche hanno cominciato ad accumulare perdite sui prestiti che avevano concesso: le “sofferenze”, nel gergo bancario. Concedere prestiti è diventato più rischioso, quindi le banche hanno cominciato a selezionare i debitori in modo più severo. Nello stesso tempo, la banca centrale ha reagito alla crisi portando i tassi d’interesse a un livello quasi nullo. Il margine d’interesse si è quindi ridotto al lumicino, poiché la materia prima su cui lavorano le banche, cioè il denaro, non costa più niente.

Il doppio imperativo, ridurre i costi e offrire nuovi servizi, è diventato ancora più pressante. Ecco allora perché assistiamo a drastici piani di riduzione del personale. Solo un esempio: Unicredit ha appena annunciato un taglio di 18.200 dipendenti, di cui 6.900 in Italia.

Ma la sfida maggiore è quella di sfruttare meglio le nuove tecnologie. Possono servire per distribuire prodotti finanziari e per fornire servizi di pagamento, come già avviene. Ma possono anche essere usate per inventare nuovi prodotti, come le “app” bancarie. Il personale deve essere in grado di padroneggiare le tecnologie informatiche, e questo è un vantaggio per le nuove generazioni, mentre crea qualche problema agli “over fifty”. Chi lavora in filale deve anche essere in grado di offrire quello che le macchine non possono fare: in primo luogo, consulenza personalizzata e attenzione alla relazione di clientela.

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