Petrolio, l'accordo Opec è osteggiato dai Paesi membri

Categoria: Estero

L'intesa per tagliare l'output di greggio? Iran, Iraq, Nigeria e Libia non cooperano. Pure l'asse Riad-Mosca rema contro. E la Fed può far calare ancor di più i prezzi.

di Riccardo Amati | 08 Novembre 2016 da Mosca lettera43

Il prezzo del petrolio ha annullato i rialzi messi a segno dalla fine di settembre in poi, sulle aspettative che ogni decisione Opec per diminuire l'offerta non venga poi implementata in modo efficiente e non sia comunque seguita da tagli produttivi da parte della Russia, terzo maggior esportatore mondiale di greggio.

Sempre più case di brokeraggio prevedono il greggio sotto i 45 dollari a fine anno.

E un eventuale aumento dei tassi d'interesse americani dopo le elezioni presidenziali potrebbe ulteriormente infierire sulle quotazioni, dicono gli analisti.

L'OUTPUT AUMENTA. Il contratto future per consegna a gennaio sul Wti - punto di riferimento del mercato Usa - ha perso fino al 3% portando il calo dai primi di ottobre a oltre il 4%, dopo che il ministero dell'Energia statunitense ha annunciato il dato sulle scorte, inaspettatamente accumulatesi nell'ultima settimana del mese a un ritmo mai visto prima, a conferma di una sovrabbondanza di offerta.

Ma ciò che più influenza le scelte degli investitori in una prospettiva a lungo termine è l'evidenza di come i Paesi Opec e la Russia continuino ad aumentare l'output.

Il sondaggio mensile di Bloomberg sulla produzione effettiva da parte dei Paesi Opec ha registrato un record a ottobre. E Mosca ha reso noto di aver prodotto ai livelli più alti mai visti dalla fine dell'Unione Sovietica, anche nell'ultimo mese.

VERSO IL VERTICE OPEC. La conferenza Opec terminata ad Algeri il 28 settembre scorso con la decisione di reintrodurre limiti alla produzione dei Paesi membri e sostenere così i prezzi petroliferi aveva inizialmente fatto prevalere le posizioni rialziste. La certezza che invece si stanno pompando sempre più idrocarburi premia ora chi scommetteva al ribasso.

A ottobre la produzione Opec effettiva ha raggiunto 34,02 milioni di barili al giorno, secondo il sondaggio mensile Bloomberg: 170 mila in più rispetto a settembre. E oltre 1 milione di barili sopra la parte alta della forchetta tra 32,5 e 33 milioni decisa ad Algeri.

Il 30 novembre l'organizzazione si riunirà a Vienna per cercare un consenso sui tagli produttivi Paese per Paese, cioè su come implementare le dichiarazioni di fine settembre.

QUATTRO PAESI SPINGONO L'EXPORT.«A questo punto, anche se a Vienna fosse raggiunto un accordo, l'offerta resterebbe alta», dice a Lettera43.it il responsabile delle strategie sui mercati delle materie prime di Bnp Paribas Harry Tchilinguirian. «Il fatto è che Iran, Nigeria, Iraq e Libia stanno spingendo il più possibile il loro export e continueranno a farlo».

I quattro Paesi, che sono o si ritengono esentati dal rispettare quote produttive (l'Iran perché da poco tornato sul mercato dopo la fine delle sanzioni, gli altri tre perché hanno avuto stop produttivi a causa di guerre e terrorismo), a ottobre hanno aumentato la loro produzione di ben 450 mila barili giornalieri complessivi rispetto a settembre.

L'Arabia Saudita non ha intenzione di far risalire i prezzi

«Perché i Paesi del Golfo, Arabia Saudita in testa, dovrebbero assumersi da soli il peso di una riduzione dell'export?», si chiede Tchilingurian.

L'accordo per un taglio della produzione, insomma, rischia di rimanere solo sulla carta.

Nessun Paese Opec lo rispetterebbe, visto che quattro hanno dimostrato un'assoluta volontà di non cooperare.

Dopo tutto l'organizzazione più volte in passato è stata incapace di far rispettare le decisioni prese in conferenza. Peraltro, il Paese che di fatto ne è alla guida, l'Arabia Saudita, non ha interesse a far risalire i prezzi del greggio più di tanto: tornerebbe competitivo il petrolio americano e Riad perderebbe investimenti e quote di mercato.

UN CONGELAMENTO NON SERVE A NULLA. Nessuna azione volta a diminuire l'offerta può comunque essere efficace se la Russia non collabora.

Alle parole del presidente Vladimir Putin che un mese fa avevano fatto pensare a una disponibilità in questo senso, «nelle ultime settimane ha fatto seguito una retorica, ufficiale e non, che al massimo concede la possibilità di un congelamento produttivo ai livelli attuali», dice lo strategist di Bnp Paribas, secondo cui un congelamento «non servirebbe a niente, visto che negli ultimi mesi Mosca ha battuto un record produttivo dopo l'altro: il suo apporto al mercato resterebbe troppo sbilanciato per permettere un riequilibrio».

PREVISIONI A 45 DOLLARI. I broker della banca francese da tempo stanno lavorando sulla base di obiettivi ribassisti: «Prevediamo che il prezzo del greggio a fine anno non sarà superiore ai 45 dollari, e che potrebbe anche avvicinarsi ai 40», spiega Tchilinguirian.

Che considera ulteriori rischi al ribasso se la banca centrale americana decidesse di aumentare i tassi d'interesse, da qui alla fine di dicembre: «La Federal Reserve potrebbe fare un passo del genere dopo le elezioni presidenziali. Tassi più alti farebbero aumentare il valore del dollaro - moneta in cui vengono scambiate le materie prime - e ciò indebolirebbe ulteriormente il mercato petrolifero».

UN'INCOGNITA CHIAMATA FED. Una situazione del genere provocherebbe infatti aumenti dell'export di idrocarburi per controbilanciare la relativa svalutazione delle divise dei Paesi produttori e per massimizzare gli incassi.

Secondo Bloomberg, gli esperti ritengono probabile al 54% che nella riunione del suo comitato per la politica monetaria il 13 e 14 dicembre prossimi la Fed decida un aumento del costo del denaro.

La maggior parte dei responsabili investimenti della banche d'affari si aspetta una stretta di un quarto di punto del tasso di riferimento.

«Credo ci sarà un aumento dello 0,25% per i Fed Funds», ha detto in un' intervista il chief investment officer di Ubs, Simon Smiles.

I tempi del petrolio a prezzi basso sembrano tutt'altro che finiti.

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