La banalità del pranzo. Consigli per preparare da mangiare ai dittatori

Categoria: Estero

Rischiando non solo il licenziamento per un cosciotto venuto male, ma a volte anche la testa

Ernesto Brambilla, 17.5.2020 linkiesta.it lettura 4’

In How to feed a dictator, Witold Szablowsky ha raccontato le storie degli chef che hanno quotidianamente assecondato i gusti e le piccole manie alimentari di Saddam Hussein, Idi Amin, Pol Pot, Fidel Castro e Enver Hoxa. Rischiando non solo il licenziamento per un cosciotto venuto male, ma a volte anche la testa

Siamo un bel po’ oltre gli edificanti racconti da Ted Talk di Sam Kass, ex cuoco della Casa Bianca durante la presidenza Obama, diventato Senior Policy Advisor per le politiche nutrizionali del presidente e poi “food entrepreneur” e guru del futuro del cibo (si definisce ora “investor & strategist for healthier climate smart food”). Se non altro perché lui, da cuoco nelle cucine di Pennsylvania Avenue, ha dovuto cercare di soddisfare i gusti di un presidente eletto democraticamente. Non vale nemmeno il paragone con l’esperienza di Roberto Toro, che da executive chef del Grand Hotel Timeo di Taormina fu invitato, dopo il G7 del 2017, a cucinare per un Donald Trump innamoratosi dei suoi tortellini.

Non è lo stesso perché i protagonisti del libro di Witold Szablowsky hanno cucinato per uomini di potere diversamente legittimati, diciamo così. Rischiando la pelle se un primo risultava indigesto, o un’insalata mal condita. “How to feed a dictator”, appena uscito per Penguin Books, è opera del 40enne “erede” di Ryszard Kapuscinski. Szablowsky, anche lui polacco come il giornalista e scrittore dedito ai libri di viaggio e reportage – autore tra le altre cose di “Imperium”, “In viaggio con Erodoto”, “Ebano” – lascia parlare gli chef che hanno servito Saddam Hussein, Idi Amin, Pol Pot, Fidel Castro e Enver Hoxa (dittatore dell’Albania dal dopoguerra agli anni ’80).

Ci ha messo quattro anni, è andato a cercarli uno a uno e ora racconta le storie di chi ha quotidianamente assecondato i gusti e le piccole manie alimentari dei dittatori. Ma il punto (e il bello) è che non si limita a curiosare nei menu di Saddam e compagnia criminale. Come nota il Financial Times nel recensire il volume, le preferenze dei “capi”, che i cuochi tentano di ingraziarsi con la buona tavola, sono banali. Potere e spietatezza non ingentiliscono il palato (del resto Frank Underwood in “House of Cards” si rifugia in un postaccio di periferia a ingurgitare costolette, solo come un predatore che addenta le carni della sua preda; mica si fa arrivare il coniglio ripieno dal delivery di Bottura, per dire).

Così abbiamo un Castro malato di gelato e goloso di uova a colazione, Pol Pot con la passione per l’insalata di papaya preparata alla maniera thailandese con arachidi e salsa di pesce. C’è qualche nota di ilarità, con Saddam Hussein che fa preparare un banchetto di carne alla brace per farci poi versare sopra tabasco a volontà e vedere se qualcuno degli ospiti osa lamentarsi (mattacchioni, questi dittatori). O Hoxa, diabetico, e provate a immaginare che decisioni prendereste – si chiede il suo ex chef, che non rivela la sua identità – se costretti alla fame tutti i santi giorni (gli veniva imposta una dieta da 1.500 calorie giornaliere per via della malattia).

Ma la verità è che Szablowski vuole capire, dalle storie degli chef, non solo cosa aveva nel piatto Pol Pot mentre costringeva alla fame milioni di cambogiani (un mal di pancino lo avrà pure avuto, non per rimorso ma perché soffriva di problemi intestinali), ma anche cosa avevano in testa e nel cuore gli stessi cuochi di palazzo. Esemplari le parole di Otonde Odera, cuoco di Idi Amin negli anni ’70: «Finché hai qualcosa di buono da mangiare per loro, c’è la possibilità che non ti uccidano». Odera riceveva soldi, macchine, di tutto. Ma la sua vita era legata a doppio filo ad Amin, il quale, infatti, di fronte a un assurdo sospetto di avvelenamento lo fece accusare e riportare nel suo Kenya. Ma finché era durata, lui era rimasto talmente immerso nell’entourage del dittatore da non accorgersi nemmeno del mostro che stava sfamando. Destino comune agli altri cuochi, spesso pescati dalla povertà e catapultati in una vita di agio, denaro, privilegi (Saddam comprava un’automobile all’anno alla brigata di cucina). Che l’arte della cucina sia anche capacità di servire a dovere, ok. Merita una riflessione il sottile confine tra questo e la complicità con assassini conclamati? Forse sì, soprattutto nel vedere il cuoco di Pol Pot diventare un diplomatico khmer in carriera dopo aver conquistato il leader cambogiano con pesce al forno e pollo arrosto.