Cosa c’è dietro alla visita di Nancy Pelosi a Taiwan

Categoria: Estero

Le ragioni sono diverse, ma pochissime hanno a che fare con un disegno chiaro da parte di Washington e soprattutto della stessa Pelosi il cui mandato scade entro il 2022

Alberto Bellotto 2.8.2022 ilgiornale.it lett6’

It.insideover.com Nancy Pelosi è sbarcata a Taiwan. Una sfida aperta alla Cina e un affronto senza pari alla leadership di Pechino. L’arrivo della speaker della Camera dei deputati Usa sull’isola ribelle è la prima visita di alto livello di un funzionario americano da 25 anni a questa parte. L’ultima volta era toccato al repubblicano Newt Gingrich che presiedeva la Camera nel 1997.

Oggi però il viaggio del falco dem si svolge in un mondo diverso, con una Cina sempre più proietta nel globo che da tempo ha messo nel mirino la provincia ribelle al di là dello stretto. Il viaggio di Pelosi è stato accompagnato da un polverone e un mezzo pasticcio da parte dell’amministrazione americana. Partiamo dalle soffiate che hanno rivelato l’intenzione di volare a Taiwan. Nessuna conferma ufficiale, ma solo fonti e voci apparse nella stampa americana. La conferma della missione asiatica è arrivata dalle indiscrezioni del Financial Times che ha parlato con oltre una decina di fonti anonime. E già qui il primo giallo: chi ha fatto uscire un’indiscrezione così delicata e perché?

Il tentativo della Casa Bianca

A questo si è aggiunto anche un mezzo pasticcio di Joe Biden e del suo team. Commentando l’indiscrezione del viaggio il presidente ha ammesso candidamente come per i vertici del Pentagono la visita non fosse una buona idea. Un errore comunicativo e strategico che ha gettato benzina sul fuoco. Perché a quel punto la frittata era fatta e Washington non si poteva più tirare indietro dato che un eventuale annullamento del viaggio in seguito alle ovvie reazioni cinesi avrebbe dato un messaggio di debolezza degli Stati Uniti davanti al grande rivale asiatico.

Da quel momento i funzionari americani sono stati costretti a normalizzare la missione. Come ha sottolineato il Wall Street Journal all’inizio della settimana, quando è iniziato il tour asiatico di Pelosi, la Casa Bianca ha ribadito che la visita non cambia la politica americana nei confronti di Taiwan e della Cina. Non solo. Qualche giorno prima, il 28 luglio, in una lunga telefonata tra Joe Biden e Xi Jinping il presidente americano ha sottolineato come l’America si opponga a modifiche dello status quo ma soprattutto ha spiegato che il Congresso e i suoi membri possono muoversi in modo indipendente rispetto al potere esecutivo.

Le ragioni del viaggio a Taiwan

Resta però una domanda chiave: perché il viaggio avviene ora, in un contesto internazionale carico di tensione? Le ragioni sono diverse, ma pochissime hanno a che fare con un disegno chiaro da parte di Washington e soprattutto della stessa Pelosi. Intanto il viaggio è solo l’ultimo capitolo di una lunga storia anti-cinese della speaker. Fin dalla sua elezione alla Camera dei deputati oltre 30 anni fa, l’Asia e la sua “democratizzazione” è stata al centro dell’attività in politica estera di Pelosi.

Come nota Foreign Policy per anni ha parlato di diritti umani e soprattutto ha messo nel mirino proprio la Repubblica popolare. Nel 1991 si rese protagonista di un gesto simbolico proprio in piazza Tienanmen dove srotolò uno striscione per ricordare le proteste represse due anni prima, causando l’arresto di alcuni giornalisti occidentali. Negli anni successivi ha combattuto in modo molto netto contro le aperture di George H. W. Bush e Bill Clinton. Più di recente si è scontrata con Barack Obama durante il processo di nomina di un funzionario dell’intelligence che la deputata dem considerava troppo tenero con la Cina.

Alla luce di questo background risulta evidente come la prima grossa ragione per il viaggio è che alla Pelosi resta pochissimo tempo per azioni eclatanti. Il Wsj ha sottolineato come molti democratici siano convinti che entro la fine anno si chiuderà l’esperienza di Pelosi come speaker e quindi terza carica dello Stato dietro a Biden e Kamala Harris. E che quindi questa fosse l’ultima occasione per un viaggio con tale visibilità.

La verità è che al di là delle dimissioni, il prossimo 8 novembre si voterà per le elezioni di metà mandato e secondo i sondaggi i democratici sono destinati a perdere la maggioranza al Congresso, in particolare alla Camera dei deputati. Se le proiezioni dovessero essere confermate a gennaio 2023 si chiuderà il mandato di Pelosi che quindi, salvo sorprese nelle urne, tornerebbe ad essere una semplice deputata.

La stagione di avvicinamento a Taiwan

L’arrivo sull’isola ribelle della speaker non è però un fulmine a ciel sereno. Da anni, e in particolare negli ultimi mesi, gli Usa stanno “abbracciando” Taiwan in funzione anti-cinese. Vendita di armamenti e molti viaggi diplomatici. Tra aprile e luglio ci sono stati almeno tre trasferte di spessore sull’isola. Ad aprile è stato il turno di una delegazione bipartisan tra cui il capo del comitato per le relazioni estere del Senato. A giugno è toccato alla senatrice dem Tammy Duckworth (in passato tra le papabili per il ruolo di vice presidente) e poi a inizio luglio a Rick Scott, senatore repubblicano della Florida.

Come ha notato gran parte della stampa Usa i segnali di maggiori legami tra Washington e Taipei sono tanti e vanno avanti da tempo. Non sono avvenuti solo durante l’amministrazione Biden, ma già durante la presidenza di Trump gli scambi erano aumentati. Nel 2020 il segretario alla Salute Alex Azar era volato a Taipei mettendo a segno la prima visita sull’isola di un membro del gabinetto presidenziale dal 1979.

Negli ultimi mesi, con l’inizio della guerra in Ucraina, gli Usa sono andati in pressing su Pechino. Da un lato hanno spinto Xi Jinping a non legarsi militarmente alla Russia e dall’altro minacciato che non sarebbe stata tollerata un’operazione militare contro Taiwan. Lo stesso Biden in un’intervista molto discussa ha ribadito come Washington sarebbe intervenuta militarmente in caso di attacco contro l’isola, scatenando le ire cinesi e un intervento dei suoi collaboratori per smorzare i toni.

La confusione

Se è vero quindi che la visita di Pelosi è inserita in un avvicinamento che arriva da tempo, è altrettanto vero che avviene in modo confuso, senza strategia e pericolosamente. Mike Chinoy, uno dei giornalisti arrestati nel 1991 per l’incursione di Pelosi a Tienanmen, ha scritto un lungo pezzo che mette in luce tutto il caos dietro la scelta di Pelosi, ma in generale la poca lucidità americana.

“La visita di Pelosi”, scrive Chinoy, “ha solo reso evidente il senso di confusione nella politica statunitense rispetto a Cina e Taiwan”. Non solo. Il fatto che Biden e Pelosi, in linea su moltissimi temi, non si siano minimamente parlati è sintomo di confusione e soprattutto debolezza del presidente e del suo staff. Anche il dipartimento di Stato presidiato da Antony Blinken si è limitato a informare lo staff della speaker sui potenziali rischi dopo i leak di Ft senza includere la visita in una pianificazione più ampia. Persino il Pentagono aveva sconsigliato il viaggio. Tre blocchi del potere americano che viaggiano a velocità diverse.

La mossa di Pelosi, spinta anche da altri membri del Congresso che ne hanno “benedetto” il viaggio, ha assunto i connotati di un atto provocatorio legato alla pausa estiva del Congresso e completamente privo di pianificazione strategica.

Cosa può ottenere Pelosi (e Biden)

Il viaggio e le parole votate al “sostegno della vivace democrazia taiwanese” resta senza obiettivo. Non è infatti chiaro quale possa essere l’avanzamento strategico per Taipei e Washington da un’azione così estemporanea. Lo stesso Chinoy nota come la mossa di Pelosi non sia inserita in una strategia più ampia che migliori il coordinamento militare tra gli Usa e l’isola o anche solo sensibilizzare gli alleati regionali, Giappone e Corea del Sud su tutti, a una difesa comune e collettiva di Taipei.

Il segnale forse più preoccupante dato dalla visita di Pelosi è lo scollamento tra il Congresso, sempre più anti-cinese con una strana saldatura tra i falchi dem e blocchi neo-con repubblicani, e una presidenza Biden debole. Il fatto che deputati e senatori possano spingere gli Stati Uniti sull’orlo dell’escalation con la Cina è il sintomo che non si fidano della leadership di Biden o la considerano eccessivamente prudente nei confronti di Pechino. Perché se è vero che il Congresso è libero e non risponde alla Casa Bianca è altrettanto vero che la gestione disastrosa della visita in mezzo a strategie fumose e dichiarazioni poi edulcorate da staff e collaboratori indica segnali pericolosi. Gli Stati Uniti confermano che l’obiettivo primario è contenere Pechino nel suo cortile di casa, ma i tempi e i modi si fanno confusi e pericolosi. In particolare perché sembrano non tenere ampiamente conto l’eventuale risposta cinese e l’eventuale escalation.