Il governo teme l'avanzata di Putin in Sudan. L'allarme dei servizi e il rebus dell'ambasciata

Categoria: Estero

L'horror vacui africano e l'avviso dell'Aise durante un vertice a Palazzo Chigi: rimpatriare gli italiani, certo, ma evitando di abbandonare i presidi a Khartoum. La messa in sicurezza dei connazionali, la minaccia della Wagner, le previsioni fosche dell'intelligence americana sul Sahel

VALERIO VALENTINI 25 APR 2023 ilfoglio.it lettura4’

Roma. Ora che l’evacuazione va concludendosi, e con successo, la paura sta proprio in quel vuoto. Quello, cioè, che con la ritirata in blocco delle diplomazie europee si è creato in Sudan, e che rischia fatalmente di essere occupato da chi in quell’area scommette sempre più: e cioè Putin. Eccolo, dunque, l’horror vacui: ecco il timore che già venerdì, in un vertice ristretto a Palazzo Chigi in cui si è pianificata la messa in salvo dei connazionali presenti nel paese africano, è stato segnalato a Giorgia Meloni dal direttore dell’Aise, Giovanni Caravelli. E si spiega allora come mai, proprio mentre si preparava il suo ritorno a Roma, si pensava pure a un possibile rientro a Khartoum, in tempi ragionevolmente brevi, dell’ambasciatore Michele Tommasi. (Valentini segue a pagina quattro)

Riaprire l’ambasciata, dunque: questa sarebbe una priorità. Certo, non nell’immediato. La scelta va ponderata con attenzione, senza azzardi che, nella polveriera sudanese, potrebbero diventare imperdonabili. E certo, quanto sia fondamentale avere un presidio in quel paese, lo si è constatato anche nelle ore più tribolate dell’evacuazione generale. E’ stata proprio la residenza dell’ambasciatore Tommasi, infatti, uno dei due punti di raccolta di cui l’unità di crisi della Farnesina, guidata da Nicola Minasi, ha fornito le coordinate via sms agli italiani presenti in Sudan. E non solo agli italiani, ma anche ad altri cittadini europei sulla via del rientro, l’ambasciata italiana ha offerto ospitalità d’emergenza. Da lì, del resto, bastava percorrere una manciata di centinaia di metri, per arrivare all’aeroporto di Khartoum.

Se non fosse che gli scontri degli ultimi giorni lo hanno reso di fatto inutilizzabile; per cui s’è reso necessario a tutti un aggravio di preoccupazione. E così, tutti i rifugiati nell’ambasciata, e pure quelli momentaneamente smistati nell’altro centro di raccolta, nella sede della ong Ovci, sono stati fatti salire su dei convogli in direzione Wadi Seidna, trenta chilometri a nord, con un trasferimento non privo di apprensione, se è vero che per una metà del viaggio i pulmini sono stati scortati dalle Forze armate sudanesi, che a un certo punto hanno lasciato in consegna i veicoli ai miliziani rivali janjaweed, col rischio che qualcosa potesse andare storto. Il tutto, cioè, fatto sulla base delle garanzie che la nostra intelligence e la nostra diplomazia, da Antonio Tajani in giù, avevano ottenuto dai due generali in contesa, Abdel Fattah Al Burhan e Mohamed Hamdan Dagalo, contattati entrambi nelle scorse ore. Dunque a nord, risalendo il Nilo dopo averlo attraversato, fino alla base militare di Wadi Seidna, dove ad attendere il convoglio c’erano le truppe delle forze speciali, arrivate da Gibuti. Di lì, su due voli distinti – un C-130 italiano, con a bordo 63 connazionali, un nunzio spagnolo con passaporto vaticano, e un AM-400 spagnolo, che ha ospitato altri 35 italiani – il viaggio verso Gibuti. Poi, finalmente, ripartenza verso Ciampino.

E tanto basterebbe, forse, per dare il senso del caos che regna in Sudan. La scelta italiana di togliere le tende è stata inevitabile, ed è maturata a seguito di analoghe decisioni prese da americani e francesi, che più d’ogni altro hanno contatti e interessi, nell’area. Ma andarsene – vale per l’Italia, ma più in generale per l’Europa e la Nato – non può voler dire abbandonare il terreno, sbaraccare ogni presidio diplomatico e operativo. L’Aise, i nostri servizi segreti esteri, avevano costruito negli ultimi tempi degli utili avamposti, tra Khartoum e dintorni, consapevoli del resto che proprio il Sudan fosse uno dei cinque paesi africani su cui più efficacemente si esercitava l’influenza del Cremlino, almeno a partire dal 2019, tramite la Wagner. Sulla cui debordante presenza nell’area, del resto, ormai si hanno prove fin troppo tangibili, e perfino l’intelligence americana va sottolineando l’interesse delle milizie fedeli a Evgeni Prigozhin sulla regione, a partire dai tentativi di fomentare imminenti rivolgimenti nel vicino Ciad. Sarebbe l’ennesima pedina del “risiko africano” su cui, all’avvio dell’invasione russa dell’Ucraina, l’allora ministro della Difesa Lorenzo Guerini mise in guardia i colleghi di governo in una riunione riservata. Il suo successore, Guido Crosetto, ha condiviso le stesse analisi in tempi più recenti, trovando convergenza di vedute con Tajani. Emmanuel Macron, del resto, dopo il sovvertimento del regime in Mali propiziato da Mosca, non c’ha pensato su troppo: e poche settimane fa ha suonato infine fa la sua ritirata, archiviando l’èra della françafrique, per il timore di dover altrimenti subire nuovi scossoni in Burkina Faso e perfino nel Niger, ultimo vero presidio occidentale nel Sahel. Per questo la guerra civile sudanese diventa decisiva oltre il suo dramma: perché se le milizie Rsf di Dagalo, rifornito neanche troppo subdolamente dai mercenari della Wagner, avessero la meglio, l’intera fascia subsahariana finirebbe nell’orbita di Mosca. Un rischio così clamoroso, una presenza talmente ingombrante, che perfino dall’Egitto, che pure certo non disdegna d’avere intese col Cremlino, sono arrivati segnali di preoccupazione raccolti anche dalle nostre diplomazie. Per questo, dunque, dal Sudan si va via ma non si scappa. O almeno questa è l’intenzione. Ritirarsi, ma senza abbandonare. Vale per tutta l’alleanza eutoatlantica. E vale anche per l’Italia. L’ambasciata a Khartoum, chiusa in tutta fretta di fronte al precipitare degli eventi, si cercherà di riaprirla al più presto. Quando, però, è ancora impossibile dirlo.