La “nuova Russia” disegnata da Putin. L’immortale Kgb si è ripreso la Russia e torna a sognare la grandezza

Categoria: Estero

sovietica. Con Putin iniziò quello che molti studiosi definiscono un “ritorno degli uomini dei Servizi”

Tullio Camiglieri 27.11, 2025 alle 11:58 lettura3’

Alla fine del 1999, quando Boris Eltsin appariva ormai logorato da anni di crisi economiche, il Cremlino era alla ricerca di una figura capace di garantire continuità, sicurezza e protezione per le vecchie e nuove élite che avevano tratto vantaggio dalla tumultuosa transizione degli anni Novanta. Fu in questo contesto che emerse Vladimir Putin, ufficiale del Kgb di rientro da anni di servizio nella Germania orientale. A quell’epoca era a capo dell’Fsb, l’agenzia che aveva ereditato strutture, logiche e personale dal Kgb sovietico. Appariva competente e dotato di una discrezione che tranquillizzava le forze interne dello Stato profondo russo. Eltsin lo nominò primo ministro, e poi, con le improvvise dimissioni del 31 dicembre 1999, lo consegnò alla storia come suo successore.

Con Putin iniziò quello che molti studiosi definiscono un “ritorno degli uomini dei Servizi”. Non fu un semplice avvicendamento generazionale: fu un vero riposizionamento dell’apparato di sicurezza. Gli ex “giovani comunisti” del Komsomol, gli ufficiali dei Servizi e i tecnocrati che avevano vissuto la fine dell’Urss come un’umiliazione, trovarono in Putin un punto di convergenza: un capo che condivideva l’idea che il crollo del 1991 non fosse stato inevitabile, ma il risultato di debolezza interna e del tradimento delle élite. Il nuovo corso iniziò con una promessa: ristabilire l’ordine. L’ordine economico e il ridimensionamento degli oligarchi; l’ordine sociale, tramite la retorica della stabilità, e soprattutto l’ordine istituzionale, con il rafforzamento dello Stato.

Il ruolo dei Servizi fu centrale: le agenzie di intelligence tornarono a essere colonne della governance russa. Dai governatorati regionali alle grandi società energetiche, dagli apparati giudiziari alle forze armate, uomini provenienti da quello che Putin definì “la corporazione dei čekisti” (dal nome della prima polizia segreta sovietica), iniziarono a occupare posti chiave. La democrazia liberale degli anni Novanta fu sostituita da un modello centralizzato e paternalistico. Putin non restaurò il sistema sovietico, ma recuperò alcuni dei suoi tratti identitari: la potenza statale, la nostalgia per il prestigio internazionale perduto, la centralità del “nemico esterno” come elemento di coesione nazionale. È da questo quadro che prende forma l’idea di una “restaurazione imperiale”. Non una ricostruzione dell’Urss, ma di una sfera di influenza che ricordasse quella sovietica: Ucraina, Bielorussia, Georgia, Asia centrale, Caucaso. Il Cremlino iniziò a percepire l’espansione della Nato e dell’Unione europea come minacce esistenziali.

Sul fronte interno, si rafforzò il controllo sui media, si limitarono le libertà politiche, si costruì un sistema di partiti che garantisse una pluralità solo apparente. Sul piano economico, lo Stato tornò protagonista dei settori strategici, in particolare energia e difesa, attraverso il consolidamento delle aziende pubbliche e l’emergere di una nuova élite fedele a Putin: i “siloviki”, funzionari provenienti dalle forze armate e dalla sicurezza statale. Sul piano culturale, si esaltava la continuità storica della Russia, da quella medievale all’Impero zarista fino alla vittoria sovietica sul nazismo. Il ritorno dell’apparato di sicurezza fu un processo identitario: venne proposta ai cittadini l’idea di una “civiltà russa”, distinta dall’Occidente, depositaria di valori spirituali e proveniente da una lunga tradizione di resistenza e sofferenza.

L’annessione della Crimea nel 2014 fu il punto di svolta: un atto che consolidò l’immagine di Putin come leader capace di “riportare a casa” i territori russi. La successiva invasione dell’Ucraina nel 2022 non rappresentò solo un conflitto regionale, ma la manifestazione più radicale di un’idea: la Russia, per sopravvivere, doveva riappropriarsi del ruolo imperiale perduto. Gli uomini del Kgb – e con loro un’intera generazione cresciuta nella certezza che l’Urss fosse un esperimento incompiuto, smantellato troppo in fretta – vedono nella Russia odierna l’occasione di ristabilire quella grandezza. Non si tratta di reintrodurre il socialismo reale, né di ricreare la pianificazione economica sovietica, ma di recuperare la struttura di potenza e influenza geopolitica che il crollo del 1991 aveva disperso.

La “nuova Russia” disegnata da Putin si basa su una concezione profondamente securitaria dello Stato, in cui le istituzioni civili e le strutture democratiche sono subordinate alla logica della stabilità e della verticalità del potere. Oggi questo sogno – un misto di nostalgia, ambizione geopolitica e volontà di controllo – continua a orientare la politica estera e interna del Cremlino. Il mito dell’Urss non esiste più come progetto politico concreto, ma sopravvive come grammatica simbolica, come immaginario di forza, sacrificio e grandezza perduta. Ed è proprio in questa dimensione che il Kgb, sotto nuove sigle ma con la stessa mentalità, “si è ripreso la Russia”: non dominando apertamente, ma impregnando la struttura del potere, definendo priorità, riscrivendo la memoria storica e orientando l’identità nazionale. Un Paese guidato da uomini che non si sono mai rassegnati alla fine dell’impero e che, attraverso Putin, hanno trovato l’occasione di provarci di nuovo.