Perché la Grecia vive a un passo dal default non da oggi ma dal 1830

Categoria: Estero

Risparmi “fino all’osso”, esattori “in fuga con le vesti stracciate”, Germania sia cliente sia commissaria. Tutto già scritto Foto AFP

di Marco Valerio Lo Prete | 27 Giugno 2015 ore 06:18

Roma. “Le conseguenze di una rottura definitiva di ogni negoziato per l’assestamento finale del debito pubblico greco sarebbero un disastro irreparabile la cui eventualità deve preoccupare al massimo grado questi  governanti”. Sembra scritto ieri – dopo lo scambio a distanza tra la cancelliera tedesca Angela Merkel (che ha intimato ad Atene di accettare “l’offerta generosa” dei creditori) e il premier greco Alexis Tsipras (con il suo canonico “no a ultimatum e ricatti”) – e invece il dispaccio allarmato sulle “conseguenze di una rottura definitiva” risale al 17 maggio 1894. Lo inviò il diplomatico italiano Fè d’Ostiani al ministro degli Esteri Alberto Blanc (governo Crispi). Lo stesso Fè d’Ostiani che un anno prima, riferendo delle estenuanti trattative tra Atene e i creditori internazionali di allora, raccontava: “Si assicura che il nuovo Gabinetto sarebbe deciso ad entrare nella via delle economie radicali, riducendo in proporzioni considerevoli i vari servizi pubblici, riducendo anche il personale amministrativo civile”. Promesse di austerity ante litteram, raccolte in un recente pamphlet di due ricercatori di Storia all’Università Roma Tre, Alessandro Albanese Ginammi e Giampaolo Conte, “L’Odissea del debito” (in edibus edizioni).

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Promesse tradite e che già alla fine dell’800 condussero a uno dei tanti default del piccolo paese che si affaccia sul Mediterraneo. D’altronde la Grecia, ricorda l’economista Carmen Reinhart, “è stata in situazione di default per oltre il 50 per cento del tempo passato dalla sua indipendenza nazionale nel 1830”. La guerra per l’indipendenza dall’Impero ottomano durò dal 1821 al 1832; non era ancora terminata che già nel 1826 Atene dovette dichiarare default. Allora il primo creditore a restare col cerino in mano fu la Gran Bretagna, che sull’indipendenza greca aveva investito soprattutto finanziariamente. Nemmeno trent’anni dopo finì la Guerra di Crimea, durante la quale Atene aveva sostenuto la Russia poi perdente, e il porto del Pireo fu occupato da Gran Bretagna e Francia per regolare le pendenze finanziarie. “Se Atene non avesse acconsentito all’istituzione di una commissione finanziaria sulle proprie finanze disastrate – scrivono Albanese Ginammi e Conte – le due potenze europee non avrebbero sgomberato il porto occupato”. Di ante litteram, stavolta, c’era il commissariamento in stile Troika. In quell’occasione, grazie a un gioco di sponda con Mosca che oggi a Tsipras non è riuscito nonostante gli ammiccamenti con Putin, fu attivata una mera “supervisione” finanziaria di Londra, Mosca e Parigi.

La Troika di allora disse che le agenzie governative non riuscivano a far pagare le tasse (1857). Ma cinquant’anni dopo, nei documenti diplomatici italiani, venivano descritti ancora gli “esattori” costretti a “fuggire colle vesti stracciate e le spalle ammaccate”, inseguiti dai greci del Peloponneso (1895). La Grecia non s’aiutava da sola, tra una Pubblica amministrazione irriformabile e un apparato produttivo insignificante (nel 1870 l’uva sultanina valeva la metà dell’export). Non che i creditori, da tutta questa storia, escano immacolati: la Germania ossessionata dalla Schuld accusava la Grecia di essere “violatrice del diritto delle genti”, ma poi il Kaiser Guglielmo II viaggiava ad Atene per vendere armamenti; Londra occupava il Pireo, ma speculava sul rischio default con la sua banca Hambro & Son. Unica lezione certa: c’è vita dopo il default. Perfino dentro l’euro, scommette oggi un numero crescente di osservatori. A lunedì l’ardua sentenza.

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