La povertà è un segno teologico, non sociologia

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Gesù era povero, ma non pauperista. Eppure nella storia della chiesa c’è

un sottile crinale tra santità ed eresia, autocoscienza e cattiva coscienza. I preti di strada, la teologia della liberazione e la fede della tradizione

“E se ne andò triste, perché aveva molti beni” (Matteo 19, 22).

Con buona pace del Giovane ricco, un po’ impressiona la spensierata contentezza, da giullari di Dio, con cui gran parte dei commentatori dell’occidente ricco e passabilmente sazio ha accolto l’avvento di Papa Francesco e i suoi immediati, ripetuti richiami alla predilezione di Dio per i poveri e alla necessità per la chiesa di essere povera. Una per tutti, l’ispirata Concita de Gregorio: “Questo Papa consapevole di un segreto che a pochi, nella storia, è riuscito di mostrare. Più ci si spoglia e più si è ricchi. Più ci si fa uguali a chi non ha nulla e più grande sarà il potere di sconfiggere il gigante arroccato nel palazzo con i suoi ori”. Può essere che davvero non abbiano molti beni del cui abbandono essere rattristati. Può essere, come dice il gran cardinale Giacomo Biffi, che “l’ideale della povertà è un nobile sentimento che piace soprattutto a chi è nato ricco”. Può essere, più banalmente, che abbiano capito ancora poco dell’esordio di Jorge Mario Bergoglio, il gesuita tosto e spiccio che quando parla di povertà sa di cosa parla. E non è detto che intenda per forza la stessa fumisteria del terzomondismo da salotto. La povertà per la chiesa non è un gingillo simbolico, l’orpello di una mancanza di orpelli, ma una realtà dai significati profondi e complessi. Ed è anche un sottile crinale tra santità ed eresia, autocoscienza e cattiva coscienza, su cui da due millenni i cristiani hanno disputato, quando non se le sono date di santa ragione. A partire da Origene (“Gesù ha pianto su Gerusalemme. Oggi v’è di che piangere sulla chiesa, che lo spirito carnale di taluni trasforma in una spelonca di ladri”), passando per la “disputa sulla povertà apostolica” che nel Trecento vide opposti i francescani e il papato, fino alla “chiesa povera e dei poveri” con cui don Dossetti, per il tramite del cardinal Lercaro, provò a mobilitare il Concilio a smontare la detestata chiesa-istituzione.

E’ però fuori dubbio che con l’elezione del Papa che “sibi imposuit nomen Franciscum”, il gesuita con le scarpe consumate a furia di prendere l’autobus per le “villas miserias” e che celebrerà il Giovedì santo nel carcere minorile di Casal del Marmo a Roma, Madonna Povertà s’è ripresa la scena. Se il cuore ideale del pontificato del dotto Benedetto era stata la dottrina nel suo scambio dialettico con la modernità, se al centro di quello di Giovanni Paolo c’era stata la sfida alle ideologie novecentesche accompagnata dall’ostensione in technicolor della sua magnifica Fabbrica dei santi, con Papa Francesco il cuore sarà la povertà. Un dossier che Jorge Mario Bergoglio padroneggia. Tutto sta a capire cosa ci sia, nel dossier. Se l’“opzione preferenziale per i poveri”, interpretata per tutta la vita da Bergoglio secondo la tradizione di un cristianesimo semplice ed essenziale. O invece anche la povertà della chiesa, intesa come riforma ed evaporazione del suo corpo e della sua realtà istituzionale, come sembra essere nei voti dei tanti teologi e commentatori progressisti che già si sono espressi in materia. Nel libro che Bergoglio ha scritto tre anni fa con il rabbino di Buenos Aires Abraham Skorka (e che ora Mondadori pubblica col titolo “Il cielo e la terra”) si legge: “Francesco d’Assisi ha apportato al cristianesimo un modo di concepire la povertà rispetto al lusso, all’orgoglio e alla vanità dei poteri civili ed ecclesiastici. Ha portato avanti una mistica della povertà, della spoliazione, e ha cambiato il mondo”. Qualcosa di più, e di diverso, della semplice somma dei fattori.

“Pare a noi che sia il momento di porgere al mondo un’umile e cordiale nostra parola di speranza, non solo religiosa, ma sociale altresì, non solo spirituale, ma anche terrena”. Sono le parole con cui Paolo VI annunciò la Populorum Progressio, la sua grande enciclica sociale: “I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza. La chiesa trasale davanti a questo grido di angoscia”. Era il 1967, padre Bergoglio sarebbe diventato sacerdote solo due anni dopo. L’enciclica di Montini divenne la bandiera della nuova chiesa. Ma anche il paravento di qualche equivoco dottrinale, e nient’altro che un pietoso cencio da buttare per gli oltranzisti. Viceversa, per altri rappresentò il tradimento del campo occidentale, di quell’alleanza tra altare e trono liberal-capitalista che nel mondo della Guerra fredda sembrava imperitura. Eppure, come ricordava quarant’anni dopo il cardinale Aloísio Lorscheider, francescano e al tempo vescovo nello stato di Rio Grande do Sul – più tardi sarebbe stato presidente della terza Conferenza generale del Celam nel 1979 a Puebla – in un’intervista di Stefania Falasca per il mensile internazionale 30giorni, nella Populorum progressio si ripeteva e attualizzava il magistero delle encicliche sociali, dalla Rerum novarum in poi: “La Populorum progressio richiama esplicitamente all’insegnamento tradizionale della chiesa sulla destinazione universale dei beni, che trova il suo fondamento nella prima pagina della Bibbia, e ne estende il principio, ricordato, tra gli altri, da san Tommaso e sant’Ambrogio”. Insomma la tradizione vivente, non un balzo in avanti nelle nuove eresie pauperiste.

Per Papa Bergoglio, che ha trascorso la vita con i poveri, esponente di un ordine che fa della povertà una virtù pari all’obbedienza (“saldo muro della vita religiosa”, sant’Ignazio) e tra i più impegnati sul tema, teoria e prassi, la povertà è la stoffa quotidiana della sua esperienza di pastore, nel solco della tradizione. Ma corroborata anche dalle prese di posizione dottrinali e pastorali degli ultimi decenni, a partire dalla cruciale “opzione preferenziale per i poveri”. E in tutto questo i gesuiti hanno avuto un ruolo importante, dentro una storia costellata anche da numerosi martiri e che inizia con la rivoluzione interna alla Compagnia innescata nel 1966 dalla famosa “enciclica di padre Arrupe”, ovvero la “Lettera ai gesuiti dell’America latina sull’apostolato sociale della Compagnia di Gesù” con cui il carismatico, e un tantino confusionario, Generale  terremotò la storia dei discepoli di Ignazio, quelli che due secoli prima in Sudamerica avevano dato vita all’incredibile esperimento teologico-politico delle “reducciones”, missioni-comunità per l’istruzione e il lavoro, intrinsecamente politiche. Bergoglio non è un teologo della liberazione, è cresciuto nell’ordine negli anni di Arrupe, ha vissuto e condotto con i suoi sacerdoti un apostolato di grande vigore. E’ questa linfa che lo fa essere l’uomo sorprendente apparso sulla Loggia delle benedizioni il 13 marzo 2013. La sua storia aiuta a capire che cosa abbia in mente, quando parla di poveri e della povertà della chiesa.

Giovanni XXIII, un mese prima di aprire il concilio, aveva detto: “In faccia ai paesi sottosviluppati la chiesa si  presenta quale essa è, e vuol essere, come la chiesa di tutti, e particolarmente la  chiesa dei poveri”. Era inevitabile, settant’anni dopo la prima enciclica sociale e trent’anni dopo che la Quadragesimo anno di Pio XI aveva denunciato come “non meno funesto ed esecrabile l’internazionalismo bancario o imperialismo internazionale del denaro”, che la chiesa facesse i conti con la nuova vastità del mondo e la povertà diffusa soprattutto là dove i suoi fedeli si avviavano a diventare maggioranza. Lo fece, a ben guardare, senza inventarsi nulla. Paolo VI citava il “De Nabuthae” di sant’Ambrogio: “Si sa con quale fermezza i Padri della chiesa hanno precisato quale debba essere l’atteggiamento di coloro che posseggono nei confronti di coloro che sono nel bisogno: ‘Non è del tuo avere’ afferma sant’Ambrogio ‘che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Poiché è quel che è dato in comune per l’uso di tutti, ciò che tu ti annetti. La terra è data a tutti e non solamente ai ricchi’. Notava ancora Lorscheider: “La proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto”.

Nel 1968, la Conferenza dei vescovi latinoamericani di Medellín  fu una sorta di presa del Palazzo d’inverno per i fautori della chiesa dei poveri. Ma sarà solo alla successiva Conferenza di Puebla nel 1979 che l’espressione “opzione preferenziale per i poveri” verrà utilizzata in modo per così dire ufficiale. Una consacrazione che partiva da lontano, dagli anni del concilio, quando l’arcivescovo brasiliano dom Hélder Câmara aveva lanciato, durante una celebrazione alle catacombe di Domitilla, un testo programmatico noto appunto come il “Patto delle catacombe” in cui si poneva l’impegno per i poveri come chiave di volta della nuova chiesa. Era il 16 novembre 1965. Pazienza se pochi giorni dopo il gesto più importante del Vaticano II sarebbe stato la revoca reciproca delle scomuniche con gli ortodossi. Ma questo, come si è visto, Papa Bergoglio invece lo ricorda bene.

Comunque sia, la scelta preferenziale per i poveri divenne un mantra dagli esiti discontinui. In Italia produsse tra l’altro l’irresistibile, e irripetibile, stagione pop delle raccolte di carta da riciclare negli oratori e dei poster “Jesus Christ wanted” appesi in parrocchia. E sfociò, anno 1976, nel convegno ecclesiale su “Evangelizzazione e promozione umana”, una delle cose più confuse che la chiesa italiana abbia mai prodotto, dovette intervenire Paolo VI per mettere ordine. In Sudamerica, luogo d’elezione della nuova chiesa dei poveri, le cose si fecero sul serio. Erano gli anni delle dittature e delle rivoluzioni. Del famoso Rapporto Rockefeller che nel 1969 spiegava all’Amministrazione statunitense come in America latina la chiesa non fosse più “la garante della stabilità sociale del continente, ma al contrario un pericolo perché forma la coscienza delle masse”. Vennero gli anni della Teologia della liberazione, delle tonache alle ortiche e dei mitra sotto la tonaca. Ma anche dei martiri e dei preti ammazzati. Di uno scontro teologico e gerarchico che impegnò Joseph Ratzinger per un paio di decenni, e che ebbe nel dito puntato da Karol Wojtyla all’aeroporto di Managua contro Ernesto Cardenal, il sacerdote poeta che si era fatto ministro della Cultura del governo sandinista, uno dei suoi momenti più spettacolari.

Non ci fu solo la Teologia della liberazione, anche se per un paio di decenni ridurre tutto a quella “eresia” ha fatto comodo, soprattutto a chi nella gerarchia era convinto che i veri problemi e i veri interessi della chiesa stessero altrove. Ancora Lorschreider: “La scelta preferenziale per i poveri non riguarda le categorie sociopolitiche, non è il frutto di sociologismi. La preferenza per i poveri è una scelta di Dio, inscritta nel mistero della Sua predilezione. Riguarda il cuore stesso della Tradizione della chiesa che da sempre stima come suoi tesori la fede tramandata dagli apostoli e i poveri, i quali sono chiamati per primi a goderne”.

La storia di padre Bergoglio si inserisce qui. Assieme a quelle di tanti preti che avevano iniziato prima di lui a frequentare le “villas miserias”, a Buenos Aires. Negli anni Sessanta alcuni sacerdoti erano andati a vivere nelle baraccopoli degli immigrati per sostenerli nelle lotte politiche e sociali. Ma capitò che vennero “cambiati dalla devozione semplice di quelli che volevano istruire”. La storia esemplare di questi “curas villeros”, gli “amici di padre Bergoglio”, l’aveva raccontata nel 2008 Gianni Valente in un suo prezioso reportage per la rivista 30giorni, ora riproposto nel libro “Francesco un Papa dalla fine del mondo” (Emi). E’ una storia capitale per capire la chiesa di Papa Francesco. “Erano preti terzomondisti, su questo non ci piove – racconta Valente –. Andavano alla Villa per testimoniare che Cristo stava coi poveri. Volevano coinvolgersi con piglio generoso nelle lotte popolari di quegli anni. Ma quando arrivavano, e la gente si accorgeva che erano preti, cominciavano le richieste: ‘Ola padre, tengo due chicos da battezzare’; ‘quando comincia il catechismo?’; ‘c’è messa domenica prossima?’. ‘La sorpresa’, ha scritto Jorge Vernazza, uno dei pionieri, scomparso nel 1997, nel libro che racconta la loro storia, ‘era paragonabile solo alla nostra ignoranza circa il sentire reale della gente’”. Così i curas villeros “si misero a costruire cappelle dai nomi inequivocabili (Santa María Madre del Pueblo, Cristo Obrero, Cristo Libertador) dove celebrare battesimi, matrimoni e funerali, recitare rosari, organizzare processioni, nello stesso momento in cui ogni giorno lavoravano per sostenere le istanze materiali”. Un’esperienza locale, giocata su un crinale sottile, che però è  anche lo specchio di uno scontro che ha coinvolto negli ultimi decenni la chiesa universale. Racconta Valente: “C’era chi li considerava sovversivi in tonaca, preti contaminati dalla propaganda marxista. Sull’altro fronte, anche gli intellettuali della sinistra esterofila, compresi quelli di matrice ecclesiale, non trattenevano il loro illuminato disprezzo verso i villeros così presi dai bisogni primari da non trovare il tempo per l’insurrezione, e verso i loro padri curati ancora attardati da rosari e Madonne, messe e confessioni. ‘Pensano di fare la rivoluzione pellegrinando alla Madonna di Luján’, ironizzò qualcuno, quando alla fine degli anni Settanta i curas villeros – su suggerimento di una madre di famiglia della cappella di Bajo Flores – organizzarono il primo pellegrinaggio annuale delle villas al santuario mariano nazionale, a cinquanta chilometri dalla capitale”. Un altro di quei preti di strada racconta: “In quegli anni questo fu il punto di maggior incomprensione tra i curas di Buenos Aires e il progressismo malinteso di alcuni ecclesiastici che magari venivano dall’Europa con una certa mentalità illustrada, illuminata. Da una parte c’era chi aveva visto e seguito la fede del popolo, il suo modo di viverla ed esprimerla. Dall’altra c’era la superbia di chi veniva da fuori a dar lezioni”. La storia di Bergoglio, e naturalmente di molti altri sacerdoti e vescovi, è anche quella di una chiesa che negli ultimi decenni ha tenuto duro, guidata dalla semplice tradizione e ha ribattuto, se necessario colpo su colpo: prima a una deriva astrattamente sociologica e “modernista”, ma poi anche a una teologia ufficiosa e a un magistero ufficiale che, di fronte ai cambiamenti delle grandi sfide geopolitiche globali, avevano optato per un’altra “scelta preferenziale”: se non per i ricchi, certo per le virtù del liberalismo e la sua piena compatibilità con la dottrina sociale cattolica.

Come ad esempio quando, nel 1997, un documento del Pontificio consiglio della giustizia e della pace sul latifondismo fu giudicato da una parte degli episcopati troppo timido (in Chiapas, una banda paramilitare aveva appena massacrato 45 cattolici riuniti a recitare il rosario in una capanna) e fu criticato a suon di citazioni di sant’Ambrogio (“la terra è data a tutti e non solamente ai ricchi”) e di Isaia: “Guai a voi, che aggiungete casa a casa e unite campo a campo”. Ancora nel 2007, parlando ad Aparecida in qualità di presidente della Conferenza episcopale argentina, Bergoglio disse senza giri di parole che la “globalizzazione, come ideologia economica e sociale, ha influenzato negativamente i nostri settori più poveri”. Oggi quello scontro tra visioni ecclesiali sembra tornare al centro dell’agenda. O almeno se ne potranno leggere le tracce nelle scelte del pontificato e nei dibattiti ecclesali che solleveranno. Anche se Benedetto XVI, proprio nel 2007 ad Aparecida, sembrava aver chiuso la questione da par suo: “L’opzione preferenziale per i poveri è implicita nella fede cristologica in quel Dio che si è fatto povero per tutti noi per arricchirci con la sua povertà”. Di certo, i poveri per Papa Francesco sono la chiesa, l’umanità tutta che Cristo abbraccia. Gli indicheranno idealmente tutte le scelte del pontificato.

Non esistono solo i poveri del Terzo mondo. Madonna Povertà è anche l’icona visibile di un tormento spirituale e, perché no?, di una fascinazione estetica che attraversa la storia della chiesa e della cultura occidentale. Pure quella laica, o sarebbe meglio dire neopagana. A partire proprio dal fascino bimillenario della figura di Gesù Cristo, segnata da una indubbia libertà nei confronti della ricchezza, e a tratti dalla sua condanna, ma up to a point. Il cardinale Biffi, in un suo brillante e teologicamente inappuntabile identikit di Gesù, liquidava come “sbagliate le interpretazioni pauperistiche”, poiché Gesù “vestiva bene, come un notabile israelita, e frequentava anche i ricchi”. Persino quando, come nel celebre episodio, Zaccheo dice “ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto”, non si tratta di politiche redistributive, ma di una conversione spirituale. Ugualmente, il fascino per la spoliazione di sé in vista di una maggiore libertà spirituale non è un’esclusiva del cristianesimo. E’ presente in certe correnti pagane prima di Cristo, ricorre in mille rivoli filosofici e politici non cristiani anche in epoca cristiana, non è estranea all’attrazione esercitata nell’ultima tranche del Novecento sui giovani occidentali dalle religioni orientali. Ma è pur vero che l’accoglienza del povero, inteso come il Cristo che viene (“l’avete fatto a me”) diventa un cardine etico irrinunciabile solo nel cristianesimo. Così come l’essenza, e persino l’estetica, del Povero si incarnerà solo in Francesco, l’Alter Christus che trova la sua perfetta sintesi poetica in Dante: l’innamoramento per Gesù come innamoramento per la Povertà stessa: Francesco e Madonna Povertà è un’identificazione teologicamente tanto forte da portare Dante sull’orlo della santa eresia: “Sì che, dove Maria rimase giuso, / ella con Cristo pianse in su la croce”. Perfino la Madonna resta ai piedi della croce, solo Povertà vi sale. Per questo Francesco è unico nella storia della chiesa, e per secoli ha fatto una santa paura onomastica ai Papi. Del resto è tale il desiderio di una vita a immagine di Cristo che percorre l’Europa medioevale, che Dante sintetizza l’entusiasmo suscitato da Francesco in due endecasillabi di radiosa baldanza: “Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro / dietro a lo sposo, sì la sposa piace” (tutti scalzi appresso a Francesco). Sarà lo stesso per i gesuiti di Ignazio, come per i missionari di ogni ordine e grado del Terzo mondo.

Un fascino che con Papa Francesco vorrebbe infiammare di nuovo la chiesa, ma che trascina con sé una tensione pressoché bimillenaria. Nicolaj Berdjaev, autore di un classico sulla storia della chiesa come “La conversione al cristianesimo nei primi secoli”, la definiva “la prova del trionfo”: la tentazione che la chiesa aveva incrociato subito, all’uscita dalle catacombe, dopo il riconoscimento costantiniano. Già sant’Ilario di Poitiers, qualche decennio dopo, ammoniva: “Combattiamo contro un nemico insidioso, un nemico che lusinga, non ferisce la schiena, ma carezza il ventre; non confisca i beni dandoci così la vita, ma ci arricchisce e così ci dà la morte; non ci spinge verso la libertà imprigionandoci, ma verso la schiavitù onorandoci nel suo palazzo; non colpisce i fianchi, ma prende possesso del cuore; non taglia la testa con la spada, ma uccide l’anima con l’oro”. Insomma in gioco non c’è solo l’accoglienza del povero, ma l’autocoscienza stessa della fede.

Puo’ dunque una chiesa ricca essere la chiesa del Signore? E’ l’altra faccia della questione. Quella che più interessa ai molti che hanno salutato in Bergoglio soprattutto l’angelo purificatore chiamato a scardinare la chiesa degli scandali e dello Ior, nel segno di una riforma che spogli l’Istituzione. L’altra faccia della povertà è la povertà della chiesa. E’ come ritagliare un foglio di carta. Anche in questo caso la storia parte da lontano, anzi dall’inizio, dalla chiesa primitiva. E’ la linea sottile che intreccia eterne radicalità e perduranti tentazioni eretiche. Nel libro “Pervertimento del cristianesimo. Conversazioni con David Cayley su vangelo, chiesa, modernità”, Ivan Illich scrive della chiesa dei primi secoli: “Era abitudine, in una casa cristiana, avere un materasso in più, un pezzetto di candela e un po’ di pane secco in caso il Signore Gesù avesse bussato alla porta, vale a dire, qualcuno senza un tetto sopra la testa fosse arrivato, e allora tu lo avresti accolto e ti saresti preso cura di lui”. Poi, dopo Costantino, la chiesa ottenne di poter affidare questo compito di ospitalità a una casa particolare, controllata dal vescovo e finanziata dalla comunità. Passò poco tempo, e san Giovanni Crisostomo tuonò: “Assegnando il dovere di comportarsi in questo modo a un’istituzione, i cristiani perderanno l’abitudine di riservare un letto e avere un pezzo di pane pronto in ogni casa”. La perdita della povertà, è insomma, il peccato originale della chiesa di Costantino. Ovviamente una forzatura, vale l’esempio di Ambrogio: l’ex magistrato romano che era di casa nelle stanze dell’imperatore, in centro a Milano, ma quando serviva non le mandava a dire, come s’è visto. Resta però che il tema è cruciale per la chiesa antica come per quella moderna, rilanciato infine con grande vigore dal dibattito conciliare. Luciano Manicardi, colto biblista e figura eminente della Comunità di Bose, in una conferenza di qualche anno fa reperibile in Internet, apprezzabile per la sintesi, chiedeva ai suoi interlocutori: “Che abbiamo fatto di questa eredità del concilio? Se guardiamo all’oggi, al qui e ora, alla nostra chiesa cattolica in Italia, vediamo certamente una povera chiesa, ma non una chiesa povera”. E il gioco è (quasi) fatto. Non senza, per carità, un bel po’ di pezze d’appoggio. Ma dopo aver almanaccato brevemente sulle forme delle nuove povertà nel nostro mondo opulento, Manicardi dedica la maggior parte dei suoi sforzi oratori a un altro tema: “Applicare la nozione di povertà alla chiesa implica una concezione della chiesa non come sistema di mediazione di verità e grazia, non come soggetto sovrapersonale portatore di diritti e rivendicazioni nei confronti del potere statale, non come quasi identificata al Cristo stesso, ma come popolo di Dio, come comunità di uomini e donne battezzati, come ‘noi’ ecclesiale, come corpo vivente”.

La posta in palio è sempre trasformare la chiesa nel popolo dei poveri in cammino, meglio se autoconvocato: dai Poveri di Lione, detti poi valdesi, a tutte le correnti ortodosse o ereticali che attraversano il Medioevo, gli Umiliati e Fra’ Dolcino, con deviazioni che arrivano fino a Tolstoj, e su su in un percorso di spoliazione e rigenerazione che ritorna identico dalle “Cinque piaghe della santa chiesa” di Antonio Rosmini – la quinta è proprio “La servitù dei beni ecclesiastici” – alle teologie della chiesa povera conciliari. Lo storico del cristianesimo Giorgio Campanini, in un saggio sull’argomento, afferma che “povertà è anche il franco e schietto riconoscimento delle diversità, delle pluralità di pareri, a volte anche della formazione di maggioranze e di minoranze. Se non si accetta la povertà, non si accetta la pluralità, e tanto meno il dissenso”. Prima si trattò di abolire il potere temporale, ora di abolire lo Ior: ogni età dello spirito ha l’oggetto che si merita, ma non c’è dubbio che sarà un altro dossier suggestivo per Papa Francesco. Che del resto non è uomo da nascondere il suo pensiero nemmeno in questa materia, come non ha mai nascosto la sua critica ai mali del “carrierismo” ecclesiale. Nel citato libro con il rabbino Skorka, si legge: “Quando il Papa era re temporale e re spirituale, si mischiavano gli intrighi di corte e tutto il resto. Ma forse ora non si mescolano?”.

In un suo famoso intervento al concilio, il cardinale Giacomo Lercaro chiedeva “l’avvio di un nuovo stile o ‘etichetta’ per i pontefici, di natura tale da non colpire sgradevolmente la sensibilità degli uomini di questo tempo, né fornire ai poveri un’occasione di scandalo”. Che la “santa povertà” non fosse più “solamente individuale, ma anche comunitaria”. E infine “un nuovo comportamento in campo economico, con l’abbandono di certe istituzioni del tempo passato, ormai prive di utilità e intralcianti il libero e generoso lavoro apostolico”. Jorge Mario Bergoglio è il primo Papa a non aver partecipato al Vaticano II. Ma “sibi imposuit nomen Franciscum”. di Maurizio Crippa, 23/3, IL Foglio