Senza la guerra in Iraq non ci sarebbe stata

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‘primavera araba’”. Parla Makiya, il Solgenitsin di Baghdad.

“Fu un terremoto e le scosse di assestamento si sentono oggi”

Due anni fa lo aveva scandito il compianto Christopher Hitchens: “Senza la caduta di Saddam Hussein non ci sarebbe stata ‘primavera araba’”. Adesso è il professor Kanan Makiya, il dissidente stratega della guerra in Iraq di cui è stato da poco celebrato il decennale, a scriverlo sul New York Times: “La rimozione di Saddam Hussein è connessa alla caduta di una serie di dittatori arabi nel 2011. Pochi dei giovani, uomini e donne coraggiosi che stanno dietro alla ‘primavera araba’, sono pubblicamente disposti ad ammettere questo collegamento”. Sulla Cnn gli ha risposto Ed Husain: “La guerra in Iraq non ha prodotto la ‘primavera araba’”. La prima sarebbe stata una guerra occidentalista, la seconda una sollevazione popolare.

Makiya non sottovaluta le difficoltà del processo in corso nel mondo arabo (“la primavera araba si sta trasformando in un inverno arabo”), eppure qualcosa di nuovo si è messo in moto. “La guerra in Iraq non è andata come volevamo, ma è stata una guerra giusta”, dice Makiya al Foglio. “Quella guerra per la prima volta ha introdotto la ‘politica della responsabilità’ nel mondo arabo, dove era assente dal 1967. Una sorta di ‘malaise’, come dicono i francesi, una malattia dell’anima, è stata esposta dalla guerra in Iraq. La caduta di Saddam venne sancita nel 1991, con la prima guerra nel Kuwait e il massacro degli sciiti che si erano ribellati. Sono stati gli iracheni, prima dei tunisini, dei siriani e degli egiziani, a insorgere contro il tiranno. E Saddam è stato il primo dittatore abbattuto. L’edificio è crollato per tutti. L’invasione dell’Iraq da parte di Bush ha messo in luce questa verità fondamentale della politica araba moderna. Per la prima volta un popolo arabo ha pensato politicamente, ha creato partiti, stampato giornali, parlato al mondo. Niente di simile era mai successo prima”. Secondo Makiya, la fine di Saddam è stata un vortice. “L’èra della dittatura militare che si è consolidata dopo la Seconda guerra mondiale è finita con Saddam”, ci dice l’intellettuale iracheno. “La guerra in Iraq ha portato in superficie il malessere del mondo arabo che risale al 1967, perché non si è mai ripreso dall’umiliazione inferta da Israele. Gli Stati Uniti hanno cambiato il modo di pensare in quella parte del mondo. Ma non erano preparati per la storica responsabilità che si sono assunti. A causa dell’11 settembre, a causa della rabbia popolare, l’America aveva capito di dover essere parte di una liberazione e che doveva avere il contatto con la popolazione araba. Alcuni però hanno chiamato l’America ‘superpotenza riluttante’. E c’è un elemento di verità. Esiste una solitudine del potere americano nel mondo arabo”.

Makiya perorò la causa dell’invasione di Baghdad in incontri alla Casa Bianca con il presidente George W. Bush e il vicepresidente Dick Cheney (lo avrebbe raccontato il giornalista del New Yorker George Packer nel libro “The Assassins’ Gate”). Per questo Hitchens ha chiamato Makiya il “Dubcek del medio oriente”, anche se a lui piace più “Solgenitsin di Baghdad”. Perché Makiya ha dedicato la vita alla memoria delle vittime del regime di Saddam.

Nel 1989 Makiya scrisse, sotto pseudonimo, “Republic of Fear”, il più dettagliato atto d’accusa contro il dittatore di Tikrit e la sua banda di assassini. Prima di vederne l’uscita, Makiya subì settanta rifiuti da parte delle case editrici americane, nessuno voleva pubblicare un libro sotto pseudonimo. Per giunta un libro che auspicava, senza infingimenti, l’invasione dell’Iraq. La sua identità Makiya l’avrebbe rivelata soltanto nel 1991 a Harvard, durante un convegno con l’esule Ahmed Chalabi.

Già militante nella Quarta internazionale trotzkista, Makiya è un intellettuale di sinistra che ha intrapreso un progetto, finanziato dall’Università di Harvard, di catalogazione dei documenti del regime saddamita sequestrati dalle truppe occidentali. E’ sua la “Fondazione della Memoria irachena”, una specie di museo delle atrocità commesse dal regime baathista tra il 1968 e il 2003, allestita sull’esempio del Museo dell’Olocausto di Washington e finanziata anche dal Congresso americano. “La traccia cartacea del terrore”, così la definisce Makiya. Nelle carte trovate da Makiya ci sono le prove del genocidio curdo, dello sterminio degli sciiti, dei finanziamenti ai “martiri” palestinesi, delle fosse comuni. Come il documento di Dujail, in cui si spiega come i saddamiti usassero mettere cento grammi di esplosivo nel taschino della camicia di oppositori, per poi farli detonare. In casa di Makiya, a Cambridge, Massachusetts, ci sono dieci hard disk che contengono gran parte di quei documenti scannerizzati. Documenti che Makiya ha condiviso con il tribunale di Baghdad che ha processato Saddam Hussein.

“Molti errori sono stati commessi, soprattutto da parte della classe politica irachena, ma non avevamo alternative alla guerra”, ci dice Makiya. “L’Iraq era una bomba pronta a esplodere nelle mani della comunità internazionale. L’invasione ha soltanto accelerato la disintegrazione. Non era facile passare dal linguaggio delle vittime a quello della democrazia, da una ‘repubblica della paura’ a una dell’incertezza, ma è emerso un nuovo modello nella regione. L’Iraq non è l’Afghanistan”. In questo senso Baghdad è stata un esempio per il resto del mondo arabo.

Makiya è stato molto critico con gli errori dell’Amministrazione Bush nella gestione della guerra, ma, a differenza di altri, il professore non ha mai compiuto passi indietro. “Lo dissi allora che se c’era anche solo il cinque per cento di possibilità per l’Iraq di diventare una democrazia, bisognava farlo”, dice Makiya al Foglio. “Non sono capace di rimorso per la guerra, è maoista pentirsi. C’è stata prima una guerra di liberazione vinta dagli americani, poi una guerra civile fra iracheni. La guerra ha scatenato le furie sottomesse durante il regime. Tra i miei errori non c’è l’aver sostenuto la guerra, ma l’aver sottovalutato che l’Iraq era un paese di venticinque milioni di persone prive di speranza. Una nazione di vittime, un gigantesco campo di concentramento catapultato su un pianeta sconosciuto”. E’ con tristezza che Makiya lamenta come l’Europa che oggi fa la prefica sulla “primavera araba” abbia abbandonato l’America e gli iracheni nel momento del bisogno. “Noi iracheni siamo stati traditi dall’Europa dei diritti umani. Non dimentico l’assenza di compassione della maggior parte del mondo libero”. Makiya ricorderà sempre il giorno in cui, al fianco del presidente Bush, da Baghdad gli arrivavano le immagini dell’abbattimento della statua di Saddam. “Un momento bellissimo. Sono orgoglioso per quella giornata. Di quel terremoto”. Le scosse di assestamento sono oggi avvertite in tutto il medio oriente.

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di Giulio Meotti