Iraq dagli antipodi

Categoria: Firme

L’ex premier australiano, più bushiano di Bush, rivendica il regime

change a Baghdad. Ne discese la primavera araba

Pubblichiamo stralci dell’intervento tenuto il 9 aprile scorso dall’ex primo ministro conservatore dell’Australia, John Howard, presso il Lowy Institute di Sydney. Traduzione di Marco Valerio Lo Prete e Maria Pia Verzillo, il Foglio

All’inizio del 2003 il mondo viveva ancora all’ombra dell’11 settembre; gli Stati Uniti erano entrati in una nuova fase di profonda vulnerabilità e vivevano nella preoccupazione di quando e dove si sarebbe verificato il prossimo attacco terroristico; la nozione di “Primavera araba” era impensabile e qui in Australia si era già sentita la piena forza dell’estremismo islamico a Bali, quasi come se un attacco fosse stato compiuto nei nostri confini. Avevamo iniziato ad accogliere nuove e severe leggi antiterroristiche destinate a reprimere le minacce locali alla nostra società pacifica.

Gli attacchi dell’11 settembre sfidarono la nostra capacità di comprendere minacce e conflitti internazionali. Non inaugurarono una guerra convenzionale, non fu consegnato alcun ultimatum e nessun esercito varcò confini, come invece avvenne nel 1991, quando Saddam Hussein invase il Kuwait. Gli attacchi dell’11 settembre erano ad anni luce di distanza dalla situazione della Guerra fredda, quando cioè la “distruzione mutua assicurata” (mutual assured destruction) generò una pace nervosa. Questo atto fu nuovo e diverso per via delle sue dimensioni, del suo impatto e della sua assoluta audacia. La riuscita sensazionale degli attacchi innervosì gli americani, e non solo.

Rappresentando quella nuova dimensione, un presidente americano disse: “La più grande minaccia agli Stati Uniti e alla sicurezza globale non è più uno scambio nucleare tra nazioni, ma il terrorismo con armi nucleari a opera di estremisti violenti”. Un altro disse: “La nostra più grande paura è che i terroristi trovino una scorciatoia per le loro folli ambizioni, dal momento che un regime fuorilegge fornisce loro le tecnologie per uccidere su larga scala”. Pronunciando queste parole, i due presidenti esprimevano una paura americana piuttosto comune, indubbiamente sentita da milioni dei loro connazionali. La prima affermazione appartiene al presidente Barack Obama, la seconda al suo predecessore, George W. Bush. Parlarono a ben otto anni di distanza, ma le parole di ognuno dei due potrebbero tranquillamente esser state pronunciate dall’altro, e dalla stessa tribuna, poiché esprimono la stessa paura. Gli attacchi terroristici dell’11 settembre hanno rappresentato una violazione della patria americana persino più grande di Pearl Harbor. Hanno prodotto negli americani un insolito senso di vulnerabilità che sarebbe durato anni.

La vulnerabilità è un concetto contro-intuitivo quando si tratta di Stati Uniti. Come può la nazione più potente che il mondo abbia mai visto sentirsi vulnerabile? Eppure è quello che Washington provò dopo il settembre del 2001; ma provò anche altrettanta gratitudine nei confronti dei propri alleati e in maniera considerevole nei confronti dell’Australia. Solo in assenza di ulteriori attacchi in territorio americano la vulnerabilità si è gradualmente dissipata. Eppure, per una corretta comprensione sia del motivo per cui gli Stati Uniti abbiano agito così come hanno fatto in Iraq, sia delle implicazioni che questo ha comportato per un alleato a essi vicino come l’Australia, è fondamentale riconoscere questa vulnerabilità. Gli americani credevano che il loro paese sarebbe stato attaccato dai terroristi di nuovo e presto; molti si chiedevano (negli Stati Uniti) perché mai uno stato canaglia come l’Iraq si sarebbe dovuto sottrarre dal fornire armi pericolose a gruppi terroristici o perché non aspettarsi ulteriori dirottamenti di aerei, o addirittura perché la prossima volta un aereo dirottato in direzione di un edificio alto non dovesse contenere qualche sostanza chimica, batteriologica o addirittura armi nucleari. Simili stati d’animo oggi possono sembrare esagerati. Ma non lo sembravano affatto negli Stati Uniti sulla scia dell’11 settembre. Il fatto che non vi sia stato alcun ulteriore attacco né nei restanti sette anni della presidenza di Bush né negli oltre quattro anni di permanenza alla Casa Bianca del presidente Obama è un grande merito di entrambi questi uomini. Poco di quel merito è stato reso pubblico. L’ansia dei primi anni ha ceduto il posto a una crescente sensazione di compiacimento per il fatto che attentati così non li rivedremo più. Così gran parte del dibattito pubblico sull’Iraq si è concentrato su quella che è stata descritta come un’ossessione infondata del paese di George Bush e di chi gli è vicino. Certamente l’Iraq non era lontano dai loro pensieri. Poche ore dopo gli attacchi dell’11 settembre, l’allora ambasciatore d’Australia negli Stati Uniti, Michael Thawley, mi disse che pensava che l’Iraq sarebbe tornato a essere un tema all’ordine del giorno per gli americani.

Tuttavia per capire la mentalità americana sull’Iraq è bene riconoscere che se c’è stata un’ossessione in merito, è stata di tipo bipartisan. Per l’Amministrazione Clinton, la rimozione di Saddam era in sospeso. Sotto la sua gestione fu approvato l’Iraq Liberation Act che richiedeva espressamente un cambiamento di regime a Baghdad. Nel 1998 Bill Clinton dichiarò che “il mondo ha avuto a che fare con il tipo di minaccia che l’Iraq rappresenta, uno stato canaglia con armi di distruzione di massa, pronto a usarle o a passarle ai terroristi che girano il mondo inosservati”. Questa affermazione potrebbe facilmente essere stata pronunciata da George Bush o Donald Rumsfeld. La convinzione che Saddam era una minaccia per tutta l’area e che sarebbe dovuto essere rimosso ha superato i confini di parte nella politica americana. Non c’è da stupirsi quindi del fatto che figure illustri dell’Amministrazione Obama come Hillary Clinton o il vicepresidente Joe Biden, quando erano senatori degli Stati Uniti, votarono a favore di un’azione militare contro Saddam. La decisione dell’Australia di unirsi alla coalizione in Iraq fu un prodotto sia del fatto che al tempo credevamo che l’Iraq possedesse armi di distruzione di massa, sia della natura del nostro rapporto di alleanza con gli Stati Uniti. Non ho mai creduto che Saddam fosse coinvolto negli attacchi dell’11 settembre e non lo credeva neanche il presidente Bush o, a mia conoscenza, Tony Blair. (…) Saddam può non essere stato coinvolto nei fatti dell’11 settembre ma aveva un curriculum a dir poco macabro. Usò gas letale contro gli iraniani e i curdi, diede 25.000 dollari a ogni famiglia di kamikaze palestinese, fu classificato dal Dipartimento di stato come uno sponsor di stato al terrorismo, fu responsabile della morte di circa 100.000 persone nella campagna Anfal del 1988 contro i curdi, ed altre 50.000 ne stroncò nella sua campagna di rappresaglia del 1991 contro gli sciiti. Nella guerra tra Iraq ed Iran si contarono tra 600.000 e un milione di morti. Il suo operato era orribile, dal punto di vista dei diritti umani. Le affermazioni di alcuni che sostenevano che la vita in Iraq fosse migliore sotto Saddam, rispetto a come era prima, perse di credibilità.

La convinzione che Saddam possedesse armi di distruzione di massa era quasi universale. Come afferma la Flood Inquiry (Commissione d’inchiesta stabilita nel 2004 in Australia per indagare sul ruolo dell’intelligence e sulla notizia delle armi di distruzione di massa in Iraq, ndr), “prima del 19 marzo del 2003, l’unico governo al mondo che affermava che l’Iraq non stesse lavorando su armi biologiche e chimiche o sistemi missilistici proibiti, o che non le avesse, era il governo di Saddam Hussein stesso”. Anche quelli che si sono dimostrati critici nei confronti di ciò che il mio governo ha fatto, come Jacques Chirac e Kevin Rudd, affermarono tutti che Saddam possedeva armi di distruzione di massa.

Anche se per molti è difficile da accettare, bisogna riconoscere che la divisione politica tra i partiti in Australia nella fase che portò all’operazione militare in Iraq non aveva a che vedere con l’esistenza di armi di distruzione di massa. Piuttosto lo era il dibattito sul fatto che, perché l’Australia si impegnasse militarmente, fosse necessaria o no una nuova risoluzione delle Nazioni Unite come pre-condizione che autorizzasse esplicitamente l’uso della forza. Più volte Simon Crean, allora leader laburista, disse che se una tale risoluzione fosse stata approvata dal Consiglio di sicurezza, avrebbe sostenuto il coinvolgimento australiano. Il mio governo non ha mai considerato l’ottenimento di una risoluzione del Consiglio di sicurezza come un necessario pre-requisito legale per l’azione di rimozione di Saddam. Abbiamo sempre considerato che la Risoluzione 678 del 1990 fornisse argomenti giuridici sufficienti per l’azione definitiva intrapresa. Ciò si rifletté nella consulenza legale formale offerta al governo e successivamente presentata in Parlamento. Anche l’Amministrazione Clinton pensò che la risoluzione 678 desse una copertura legale totale per tutte le azioni militari necessarie a far rispettare i termini di tale risoluzione. Ci fu un’ampia accettazione di questa tesi anche in Australia. Quando l’Australia accettò, su richiesta del presidente Clinton, di inviare forze speciali nel Golfo nel 1998 per sostenere l’“Operation Desert Thunder” di americani e inglesi contro la capacità di Saddam e del regime di costruire armi di distruzioni di massa e altre risorse strategiche, a causa di un’altra azione di sfida dell’Iraq contro le risoluzioni delle Nazioni Unite, l’opposizione si dimostrò prontamente d’accordo. Kim Beazley mi accompagnò a Campbell Barracks per salutare i nostri uomini. Eravamo concordi nella correttezza della loro missione. Jeane Kirkpatrick, oggi scomparsa, riferì all’“American Enterprise Institute”, nel giugno 2003, di una conversazione che aveva avuto con Richard Holbrooke (già ambasciatore degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite e negoziatore degli accordi di Dayton per la pace in Bosnia-Erzegovina, ndr) in cui egli disse: “Per tre volte Clinton ha fatto ciò che molti democratici sostengono che Bush non possa fare ora. L’ha fatto in Bosnia nel 1995, in Iraq con l’operazione Desert Fox del 1998 e in Kosovo nel 1999. Nel caso dei Balcani non aveva l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza”.

Un argomento costante contro la nostra partecipazione alla coalizione dei volenterosi era l’affermazione che ciò avrebbe aumentato la probabilità di un attacco terroristico nel nostro paese. La mia risposta fu allora che l’Australia era stata un obiettivo del terrorismo già da diversi anni prima dell’Iraq. Il primo riferimento belligerante a noi di Bin Laden c’era stato nel 1999, nel contesto della liberazione di Timor Est, evento che ebbe un ampio sostegno della comunità australiana. Non ho mai avuto un approccio disinvolto alle minacce terroristiche e non si possono dare garanzie credibili del fatto che l’Australia sia immune da simili attacchi. Tuttavia l’evidenza fino a oggi è che i nostri servizi di sicurezza, il rafforzamento delle nostre leggi e una popolazione attenta si sono combinate nel fornire un’effettiva tutela.

Dopo la caduta di Saddam, e quando divenne evidente che le scorte di armi di distruzione di massa non erano state trovate (per me inaspettatamente) in Iraq, fu davvero troppo facile per alcune persone, che solo pochi mesi prima avevano sostenuto che l’Iraq avesse le armi, affermare che l’Australia era andata in guerra sulla base di una “bugia”. Questa affermazione è la più famosa di tutti circa la condotta del mio governo e di altri, e merita il rifiuto più enfatico. Non solo ha a che vedere con l’integrità del processo decisionale al più alto livello, ma anche con la professionalità e l’integrità dei servizi segreti qui e altrove. Alcune delle loro valutazioni chiave si sono rivelate sbagliate, ma ciò è ad anni luce di distanza dal fatto che tali valutazioni siano il prodotto di un inganno e di una manipolazione politica. In Australia ci fu un’inchiesta parlamentare, come anche la Flood Inquiry ad hoc sull’intelligence pre intervento militare. Nel suo studio, l’Ona (Office of National Assessment) disse: “L’Ona ha detto in un rapporto del 31 gennaio 2003 che vi è una grande quantità di intelligence concentrata sulle attività legate alle armi di distruzione di massa di Saddam, ma si dipinge un quadro indiziario che è conclusivo nel suo complesso, piuttosto che basato su un unico elemento di inconfutabile evidenza”. La Defence Intelligence Organization (Dio) disse nella sua presentazione per la stessa inchiesta che “probabilmente l’Iraq aveva mantenuto una competenza per quanto riguarda le armi di distruzione di massa, anche se questa capacità si era degradata nel corso del tempo. Dio ha inoltre valutato che l’Iraq abbia mantenuto sia l’intenzione che la capacità di riattivare un programma più ampio, qualora vi siano delle circostanze che lo permettano”.

La Flood Inquiry non trovò “alcuna prova di politicizzazione delle valutazioni sull’Iraq, sia dichiarata che percepita” o tantomeno che “qualche analista o gestore sia stato oggetto di una pressione diretta o implicita per giungere a un particolare giudizio in Iraq per motivi politici o rafforzare le ragioni della guerra.” Essa inoltre affermò che “le valutazioni riflettono ragionevolmente i dati disponibili e usano le risorse d’intelligence con la giusta cautela”. La Flood Inquiry affermò che la conclusione opposta, cioè che l’Iraq non avesse armi di distruzione di massa, “sarebbe stata molto più difficile da dimostrare”. Inoltre l’indagine non ha dato neanche un minimo sostegno alla tesi che i membri del mio governo avessero creato un’intelligence ad hoc o costretto le agenzie con maniere forti ad affermare cose che non ritenessero vere.

Avevo accettato l’intelligence disponibile, come avevano fatto tutti gli altri membri di alto livello del mio governo che avevano partecipato ai numerosi incontri del National Security Committe of Cabinet (Comitato per la Sicurezza Nazionale). L’Iraq Survey Group (ISG), una missione multinazionale creata per verificare la presenza di armi di distruzione di massa, non trovò arsenali del genere. Il succo delle sue conclusioni era che, sebbene non esistessero delle scorte, Saddam aveva intenzione di ricostituire le sue armi di distruzioni di massa una volta che si fossero sollevate le sanzioni delle Nazioni Unite, e che aveva programmi e mezzi per farlo. E’ importante sottolineare che l’Iraq Survey Group ha ritenuto che il regime di Saddam stesse attribuendo un grande significato alla sua capacità legata alle armi di distruzione di massa; essa si era infatti rivelata cruciale per mantenere la superiorità sui curdi, e vitale nella guerra contro l’Iran.

(…) Il conflitto dopo l’invasione, soprattutto tra sunniti e sciiti, che causò notevole spargimento di sangue ovunque, ha fatto a mio giudizio più danni per la credibilità dell’operazione di coalizione in Iraq di quanto non abbia fatto l’impossibilità di trovare scorte di armi di distruzione di massa. La persecuzione della maggioranza sciita da parte di sunniti pro Saddam era stata una caratteristica dell’Iraq degli ultimi venti anni. Era inevitabile che dopo la caduta di Saddam sarebbe stato preteso un certo grado di vendetta, ma la presenza di una sicurezza maggiore avrebbe arginato il fenomeno. La situazione della sicurezza in peggioramento in Iraq, e in particolare l’intensa violenza settaria verificatasi dal 2006 e che produsse un numero di morti preoccupante, portò all’adozione da parte dell’Amministrazione Bush di una strategia dell’aumento di forze, sotto la guida del generale David Petraeus. Sulla base di una intelligence migliore e di un approccio “chiaro, sostenuto e consolidato” che richiese l’impiego di altri 30.000 soldati americani, in un momento in cui vi era da calmare una crescente pressione in patria, si diede luogo a una coraggiosa chiamata politica e si ebbe come risultato uno schiacciante successo. Il presidente Bush è stato in qualche modo un po’ solo nel credere all’intervento. Molti dei suoi generali non lo volevano, e molti dei suoi alti funzionari erano tiepidi. Molti a Washington chiedevano una diminuzione delle perdite di americani. Con il “risveglio sunnita” nella provincia di Al Anbar e con le operazioni speciali di intelligence contro le reti terroristiche, si cambiava il corso degli eventi che coinvolgeva al Qaida in Iraq, e ciò diede la speranza che vi fosse la prospettiva per un paese relativamente stabile e pacifico. Ho incontrato Petraeus, uomo davvero notevole, a Baghdad, nel 2007. Mi auguro che un individuo di tale evidente capacità ritorni nella vita pubblica degli Stati Uniti.

In Iraq oggi non c’è una democrazia piena, come la intendiamo noi – solo Israele, nel medio oriente, può rivendicare una simile descrizione. Eppure i suoi cittadini hanno votato in cinque occasioni dal 2003 a oggi, sia per eleggere le persone che li avrebbero governati, sia per approvare le norme secondo le quali sarebbero stati governati, nonostante le violente intimidazione che hanno affrontato nel farlo. Questo dice molto sulla sete di libertà che hanno e sulla loro volontà di partecipare a un processo elettorale democratico. Ci sono ancora grosse lacune nelle infrastrutture irachene, con servizi di base ancora non all’altezza di tale definizione. Eppure l’economia irachena ha goduto di una crescita del 10 per cento nel 2012, le esportazioni di petrolio hanno raggiunto nello stesso anno il record trentennale di 2,6 milioni di barili al giorno. Il pil pro capite è nettamente superiore a quello che era prima che Saddam fosse rimosso. Fino a che punto la democrazia ha veramente messo delle radici in Iraq, e in che misura, se lo ha fatto, gli eventi in Iraq hanno avuto un impatto sul resto del medio oriente? Spero di non essere accusato di richiamare in mia difesa Chou en Lai quando dico che si dovrebbe attendere più tempo per poter dare una risposta piena a simili domande. Il primo capo di governo della Repubblica popolare cinese, quando gli fu chiesto quale fosse stato secondo lui l’impatto della Rivoluzione francese sulla storia del mondo, rispose che era troppo presto per dirlo! Tuttavia è noto che, a differenza che dalla maggior parte dei paesi della sua regione, il sistema politico in Iraq non è stato surriscaldato dalla primavera araba. Ciò ha sicuramente a che fare con il quadro democratico che vi è stato stabilito negli anni recenti. Poco dopo l’operazione di coalizione in Iraq, Gheddafi rinunciò alle sue armi di distruzione di massa, e cercò di essere riammesso nella comunità internazionale. Lui e il suo regime sono ormai finiti. Inoltre è difficile non essere d’accordo con Nadim Shehadi della Chatham House quando dice che “l’idea che la primavera araba sia stata innescata da un commerciante di strada immolatosi in una oscura città tunisina è semplicemente impossibile da credere”. Il fermento in medio oriente è ormai tale che è difficile prevedere quali saranno gli esiti tra cinque o dieci anni, e quale influenza su di essi abbiano esercitato – se l’hanno fatto – gli eventi che riguardano l’Iraq. In questo contesto vale la pena di considerare che se Saddam non fosse stato rovesciato nel 2003, molto probabilmente sarebbe ancora al potere. In risposta alla manifestazione della primavera araba in Iraq, ogni rivolta sarebbe stata repressa con una brutalità simile a quella di Assad in Siria. La realtà è che il medio oriente rimane un luogo incredibilmente complesso, in cui i collegamenti e il nesso di causalità tra gli eventi sono molto difficili da dipanare anche per gli analisti più esperti. A mio avviso, tuttavia, non è plausibile che gli eventi che oggi conosciamo come la primavera araba non abbiano alcun rapporto con il rovesciamento del regime di Saddam nel 2003.

Anche se la giustificazione legale per l’azione intrapresa contro l’Iraq è stata basato sulla sua continua inadempienza al rispetto delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, e sulla convinzione comune che Saddam possedesse armi di distruzione di massa, un fattore influente sulla nostra decisione di aderire alla strategia degli americani era, naturalmente, la profondità e la natura del nostro rapporto con gli Stati Uniti. L’Australia nei giorni successivi all’11 settembre aveva invocato l’operatività dell’Anzus (Patto tripartito di sicurezza fra Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti sottoscritto nel 1951, ndr). Avevamo prontamente aderito alla coalizione in Afghanistan, avendo anche l’Australia subìto la brutalità del terrorismo islamico a Bali. C’era un sentimento comune, allora, secondo cui un certo modo di vivere che condividevamo con altri paesi alleati era sotto minaccia. A quel tempo, in quelle circostanze, e data la nostra storia e i nostri valori comuni, valutai che, in ultima analisi, era nel nostro interesse nazionale di stare accanto agli americani. Molti sostennero che avremmo dovuto restarne fuori, che avremmo dovuto dire “no” agli americani per ottenere un cambiamento, che la vera misura di un buon rapporto di amicizia è la possibilità di dissentire quando le circostanze lo richiedono, che nel caso dell’Iraq avrebbe fatto male al nostro paese sostenere gli Stati Uniti e che nel lungo periodo il rifiuto di partecipare alla Coalizione dei volenterosi sarebbe stato un bene per l’alleanza. Questa argomentazione mi sfuggiva allora e continua a sfuggirmi adesso. A mio parere le circostanze che ricordiamo stasera necessitavano di un alleato che potesse definirsi tale al 100 per cento, non al 70 o all’80. Ammetto che la decisione del mio governo riguardo l’Iraq abbia polarizzato le opinioni in Australia. È improbabile che il passare del tempo abbia ammorbidito le posizioni nei confronti di tale decisione. Rimane in me, tuttavia, la convinzione che fosse quello il passo giusto perché coinvolgeva gli interessi nazionali dell’Australia, e che la rimozione del regime di Saddam abbia fornito al popolo iracheno le opportunità per una libertà che altrimenti non avrebbe mai avuto una prospettiva.

di John Howard