Tutte le ragioni liberiste per preservare l’Imu

sulla prima casa. Un parere a favore

L’Italia è afflitta da troppe tasse su lavoro e imprese. Perché incentivare figli disoccupati nelle dimore esentasse dei padri?

Caro presidente Enrico Letta, non si faccia indurre in tentazione: lasci stare l’Imu sulla prima casa. L’Imu è una tassa giusta, se mai una tassa può essere giusta; e comunque risponde a esigenze che difficilmente possono essere accomodate, con altrettanta efficacia, da un tributo diverso. Partiamo dai numeri. Nel 2012, l’Imu ha prodotto un gettito di 23,7 miliardi di euro, di cui circa 4 dalle prime case (contro i 3,3 della vecchia Ici), 6,5 miliardi dagli immobili strumentali delle società e 5,2 da quelli delle imprese individuali. Il 35 per cento dei contribuenti ha versato meno di 200 euro, cioè ha potuto detrarre quanto pagato sull’abitazione principale. Nel 2011 (prima dell’Imu), gli italiani hanno pagato circa lo 0,6 per cento del pil in imposte sugli immobili, contro una media europea dell’1 per cento. Tra i paesi con cui abitualmente ci confrontiamo – perché sono simili a noi per popolazione, reddito medio e composizione dell’economia – solo la Germania stava al di sotto, con lo 0,5 per cento. Gli spagnoli, infatti, hanno pagato l’1 per cento del pil, gli inglesi l’1,5 per cento e i francesi addirittura il 2,5 per cento.

Ci sono almeno tre ragioni per cui, in una logica di revisione del sistema tributario, l’Imu non deve essere toccata. La prima è di equilibrio tra le diverse categorie di contribuenti. L’Italia non si distingue per l’accanimento fiscale sulla casa, ma sul reddito da lavoro (con un cuneo fiscale di 11-13 punti superiore alla media Ocse) e da impresa (con un “total tax rate” del 68,3 per cento contro una media del 42,7 per cento). Se riteniamo che l’obiettivo prioritario della politica economica debba essere creare condizioni favorevoli agli investimenti e all’occupazione, è lì che bisogna mettere le mani, non nella tassazione degli immobili (se non, al limite, di quelli strumentali delle imprese). La seconda ragione è legata alla natura della finanza pubblica locale, della quale l’Imu è l’architrave e dovrebbe esserlo ancor più lasciandola interamente ai comuni. La maggior parte della spesa pubblica locale va a vantaggio di chi possiede un immobile. E’ quindi sensato che siano questi ultimi a contribuire di più. Fare altrimenti, comporterebbe un’asimmetria intollerabile. Come ha scritto l’economista Gilberto Muraro, “chi gode dei servizi pubblici senza pagare, eserciterà una pressione politica vincente per l’aumento della spesa pubblica; e allora il comune o va in deficit, oppure spreme i contribuenti che può colpire, che tenteranno di rifugiarsi nell’evasione o nel cambiamento di residenza”. In terzo luogo, c’è la questione dell’equità. Una tassazione proporzionale sugli immobili è quasi per definizione progressiva sui redditi, in quanto il risparmio è una forma di accumulo, e accumula chi può permetterselo. Con un’aggravante tutta italiana: poiché c’è una forte correlazione tra età e ricchezza (cioè i “ricchi” sono tendenzialmente i “vecchi”), concentrare il prelievo sulla ricchezza patrimoniale significa trasferire dai padri ai figli; prendersela coi redditi il contrario.

Sicché, per paradosso, mantenere l’Imu sulla prima casa equivale a rinunciare, per esempio, alla deducibilità del costo del lavoro ai fini Irap (che richiederebbe circa 6,5 miliardi). La scelta è tra un mondo dove i figli vivono da disoccupati nella casa dei padri esentasse, e uno dove hanno un reddito con cui stare in affitto mentre i genitori rinunciano alla settimana bianca.  Tutte le tasse sono in qualche misura cattive, ma alcune sono più inique, inefficienti o distorsive di altre. L’Imu sulla prima casa non è tra queste.

© - FOGLIO QUOTIDIANO di Carlo Stagnaro, 26/4

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