I buoni maestri. Altro che giovanilismo.

Finora si è imposto Napolitano, con la sua pedagogia della vecchiaia

“La vecchiaia (è questo il nome che gli altri gli danno) / può essere per noi il tempo più felice. / E’ morto l’animale o quasi è morto. / Vivo tra forme luminose e vaghe / che ancora non son tenebre” (Jorge Luis Borges, “Elogio dell’ombra”, Einaudi)

Alto e diritto – lassù svettante – si ergeva il presidente Napolitano, il ciglio che a volte s’inumidiva e il cipiglio che perennemente persisteva. Vecchio – così vecchio da sfidare la cafoneria grillina, non così vecchio da togliere speranze a certi ammosciati e cadenti, a certi altri viagrizzati e irrigiditi, settantenni in Aula – e solenne e saggio e furente, davanti quell’Aula che magari fosse solo sorda e grigia, piuttosto vociante e variopinta, tacchinesca e pavoneggiante. Mocciosi inadatti, disutili al tramonto, sgarzolini twittanti e frignanti – tutti con la coscienza appesa in bella vista come mutande fresche di bucato alla finestra (la vedete? la vedete? è la mia! è la mia!), qualcuno spedizioniere di squadracce da marciapiede insultanti, altri scavatori di altrui fosse politiche, vispe clarette e ammonitrici clarabelle. Omaggiava la forma, Napolitano, e sculacciava la sostanza nelle chiappe calate sulle mille poltrone che gli facevano ala. Pareva un preside, di quelli tosti, di quelli precedenti ogni riforma scolastica, molto autorevole e persino un po’ sadico, sdegno dietro le lenti e frustino in mano, che riconsegnava gli inappaganti compiti della maturità, “non sono state date soluzioni soddisfacenti”, “contrapposizioni, lentezze, calcoli di convenienza, tatticismi e strumentalismi”, “sterilità”, “esiti minimalisti”, “tanti nulla di fatto”. Dietro la lavagna, via! – a totale vergogna, a giusto castigo, pure una manciata di ceci sotto le ginocchia. “Alcuna autoindulgenza!” – disse Napolitano, quasi un biblico Noè che se la prende con il suo Parlamento sbandato ed errante, Parlamento “di dura cervice”. Omaggiava dunque, sapendo – per sua cultura e per sua sensibilità e per sua intelligenza – come la forma sia in politica anche sostanza, l’argine allo sbraco e all’infinita stupidità presidio democratico, e forse in cuor suo transitava lo stesso pensiero di “Jakob von Gunten” di Walser di fronte al degrado dell’Istituto Benjamente – che a fucinare servitori doveva provvedere, e nemmeno più i servi sapeva forgiare: “Forse che qui c’è un qualche piano generale, un pensiero? No, niente”. Quasi tutti – a scrutare da lassù in alto, a trattenere le lacrime e le parole – simili al “magnifico zero” che il giovane Jakob sente di essere destinato a farsi – e certi già sono.

Ha rappacificato con l’idea della vecchiaia, della buona e utile vecchiaia, Napolitano. Con il (buon) senso che i tanti anni, e magari una buona esperienza, dovrebbe accordare. Ci voleva un vecchio – d’età e di saggezza – politico, persino antico, per immettere un po’ di vitamine nel sangue acquoso degli italici eletti: barbosi, tremebondi, gradassi. Pretenziosi come damine porcellanate, grevi come maniscalchi, una profondità d’azione da pantano. Quel vecchio che si alza e quegli eletti che si siedono (si abbassano?), quel vecchio che alza lo sguardo e quegli eletti che lo chinano, sono la prima immagine sensata, tra tante d’insensatezza di questi ultimi mesi. I buoni maestri – quelli che insegnano, non quelli che blandiscono, la mano ispida piuttosto che carezzevole – sanno che spesso è nella durezza il vero. In quella mezz’ora, Napolitano ha riallineato l’idea (sbeffeggiata, ironizzata, deprecata) della vecchiaia alla sua più utile e migliore funzione: un minimo di decente e utilissima pedagogia. Perché sono, i vecchi migliori, quelli che sanno di essere altra cosa rispetto ai giovani, che sanno di avere un diverso sguardo sulle cose – proprio perché sul limitare delle cose ormai si muovono, che hanno altre pulsioni, un vibrare impercettibile e profondo, così da non ridursi in patetici giovanilisti, così da non risultare infine solo “l’animale morente” che Yeats evocò (“consumami il cuore: malato di desiderio”) e che Philip Roth trafisse nell’anziano professore in ginocchio mentre lecca le cosce sanguinanti (così che gli “sembrava di essere un ragazzo”: ancora, seppure osceno e vampiresco) della sua giovane allieva Consuelo – erotica e irresistibile “come il San Sebastiano di Mantegna”. E’ la dissipazione della meglio vecchiaia, uno dei punti dolenti di questi giorni di improntitudine e starnazzamenti. C’è voluta la saggezza di un Papa per ricordare come sia umana, e dunque ammirevole, quelle friabilità che gli anni sommano e appesantiscono; c’è voluta la saggezza di un presidente per ricordare come sia altrettanto umana, e dunque ammirevole, quella sapienza che gli anni sommano e innalzano. Dovrebbero, i vecchi migliori, fare i vecchi – così che, con ciceroniana esattezza, possano percorrere dall’estremo all’altro la propria intera esistenza, “affinché sia la fragilità dei fanciulli, sia il vigore dei giovani, sia la serietà dell’età matura, sia la saggezza della vecchiaia”, perché infine “la vecchiaia in particolare quella degna di stima ha un’autorevolezza tanto grande da essere di più di tutte le forze dei giovani”.

E’ l’ombra (la penombra) borgesiana, il luogo della vecchiaia – non come assenza, piuttosto come riflessione, come attenzione, come obbligo verso il carico che il passare degli anni ha stivato dentro il corpo e la mente, “questa penombra è lenta e non fa male; / scorre per un mite pendio / e somiglia all’eterno”. Per un Napolitano che si leva, ammonitore e irato, così da non apparire solo come inutile vitello dorato riconsacrato e dimenticato, a rammentare che esistono obblighi oltre che chiacchiere, dalla vacuità del fare politica senza fare scelte politiche (cioè decidere, cioè scontrarsi, cioè scegliere, cioè pensare, cioè pagare), solo e tutti portavoce, solo e tutti presi dalla paura – ago impazzito di sismografo che vibra solo di altrui passioni, megafoni sempre di immaginari movimenti: grancasse, tromboni, trombette (in bocca), portachiacchiere, portascemenze, portainsolenze. Qualcosa l’età conferisce, a qualcosa l’onere di una carica dovrebbe obbligare. Affollata di vecchi che aizzano, che saltano sui palchi (ribaltate! ribaltate!), che solleticano cori per strada che solleticano a loro volta solo tardive vanità, che lanciano proclami di scarsa sapienza, che danzano (in girotondo, anche, quando fu il momento di girare in tondo) – non la compostezza serafica del giardiniere di Cezanne, posato nell’ombra, e dall’ombra attento, piuttosto il vecchio Arlecchino un po’ sfatto di Picasso. Illustri giuristi, guitti planetari, accademici irruenti – la vecchiaia che si riduce a pantomima della folla, triste e senza allegria essendo poi un’allegria fittizia e mediatica e forzata, come se si fosse al perenne inseguimento della marinettiana “metallica gioventù”. E soprattutto impoverita dell’autorevolezza dell’assoluta diversità. I vecchi possono essere certo rompicoglioni, possono essere barbosi, imprigionati dentro la loro esistenza. Patiscono le vene, si induriscono le teste. Ma i vecchi migliori sono quelli che sanno quel che furono e quel che hanno capito – anche quando più non lo sanno, anche quando più non lo capiscono. Come successe a Silvina Ocampo, scrittrice e poetessa argentina, amica di Borges, moglie di Bioy Casares. Era già molto vecchia. Un giorno trovò un libro di racconti. Lo lesse. Se ne innamorò. Non sapeva chi lo aveva scritto. Chiese a un amico – che non sapeva più neanche essere suo amico: “Conosci questo libro? E’ bellissimo. Mi piacerebbe sapere chi lo ha scritto”. Era un libro di Silvina Ocampo – così che niente di ciò che era stato, nella sua vecchiaia di sogno e nebbia, in maniera quasi miracolosa, gettava via.

E’ un modo per non morire – non fosse altro che per più tardi morire – quello di sapere che pochi passi mancano perché accada. E spendere quel che resta per qualche ultima verità, e qualche sprazzo di sapienza, se un po’ di sapienza è finita ed è restata tra le dita. Come ha fatto Napolitano, nel suo memorabile discorso alle Camere. La vecchiaia concede questo, soprattutto questo – ai vecchi che possono essere intere biblioteche o foglia secca che vola: la fine delle finzioni, la fine dell’opportunismo, nel migliore dei casi la fine delle convenienze. Possono stupire, i vecchi – come i bambini, come gli animali: come tutti gli esseri che sanno cosa sentono. Il mondo politico, quello che ha preso la lavata di capo di Napolitano, sembra invece un universo afflitto più che altro da incontinente bovarismo, dal vorrei ma non posso, potrei ma non voglio. Non dentro l’ombra pensosa sta, ma l’ombra sua stessa teme – così che uno può benissimo immaginarli come il povero agnello transgenico fotografato in Uruguay, che alla luce ultravioletta appare fosforescente: a trastullarsi di una luce non propria. “Siamo pieni di bovarismo dalla testa ai piedi, sempre ansiosi, nostalgici, insofferenti... Bovaristi, pieni di pietà per noi stessi, siamo scettici e increduli per tutto quanto passa, in spoglie giornaliere e provinciali, intorno a noi”, scrisse Natalia Ginzburg. Certi di sapere sempre di più di quello che pure fatichiamo a comprendere. A soli cinquantadue anni, sul finire degli anni Sessanta – la vecchiaia è un perenne orizzonte: come l’Itaca di Kavafis, è il viaggio necessario per raggiungerla che ne consacra la grandezza – Natalia Ginzburg scrisse un saggio sul suo diventare vecchia. Non ne fece un’esaltazione, certo – in qualche modo ne prendeva le misure: “La vecchiaia s’annoia ed è noiosa: la noia genera noia, propaga noia attorno come la seppia propaga l’inchiostro: Così noi ci prepariamo a essere insieme e la seppia e l’inchiostro: il mare intorno a noi si tingerà di nero e quel nero saremo noi…”. Poi fu splendida vecchia (“siamo vecchi, non anziani”), la scrittrice: lo sguardo severo e compassionevole, le rughe che facevano del suo viso una splendida maschera intagliata, le parole nette e vere, anche quando dovevano essere sgradevoli – né compiacenza per sé, né compiacenza per le altrui balordaggini: così che la sua severità si ricorda, e la sensazione che qualcosa di autentico sia transitato tra parole e silenzi durante certe conversazioni, tra il fumo delle sigarette e l’indolenza scostante dei gatti che camminavano sui suoi fogli disordinati e vivi.

Di vecchi veri avremmo davvero bisogno. Di qualcuno che non cerchi di somigliare alla nostra balorda e fiacca mezza età, né pateticamente provare a ibernarsi nel passato – il sesso cascante artificialmente rianimato dalla pastiglia azzurra, il botox che muta le facce in faticose sculture precolombiane, il culetto tremulo palestrato che s’innalza imperioso e buffo nella fila davanti allo sportello per la pensione, il poco crine residuo smaltato di pece che pare quasi colare sulla faccia come a Gustav von Aschenbach (non così vecchio, ma infinitamente vecchio, nel suo patetico truccare la sorte) nel finale di “Morte a Venezia” di Visconti – mentre l’angelico, desiderato Tadzio sfuma all’orizzonte, “ha la forma del tuo corpo che mi ruba lo sfondo” (Roberto Vecchioni). Pateticamente ingabbiati nel tramonto dove l’attesa è certo minore del ricordo, come liceali petulanti e capricciosi, come politicanti irrisolti, dentro i centoquaranta caratteri di Twitter, che neanche l’Amen finale ci sta – fino a ignorare che lo stitico cinguettio cui si condannano è solo pallido riflesso di quello che il gran vecchio Borges donò a loro tutti: la Biblioteca di Babele, essa sì “illimitata e periodica” e totale e perenne, “tutto ciò ch’è dato di esprimere, in tutte le lingue” – e sapienza ed esperienza e pedagogia si perdono così: un rubinetto aperto lasciato a far scorrere acqua in un desertico nulla, “se dobbiamo entrare nel deserto / io sono già nel deserto”. Dice il senso comune (l’orrore che morde alla gola il buon senso) che sfuggire occorre tanto al declinare quanto all’assumersi le proprie responsabilità – e il passo secco e ancora saldo di Napolitano, la voce di furia trattenuta, questo ha riportato a galla.

Un vecchio sa (deve) fare i conti, infine. Con se stesso, gli unici davvero importanti. Non si bara, nella buona vecchiaia. Non si truccano le cifre dell’esistenza. Norberto Bobbio, pochi anni prima di morire, tenne una bellissima lectio magistralis – titolo: “De senectute” – in occasione di una laurea ad honorem a Sassari. “Si dice: alla fine tu sei quello che hai pensato, amato, compiuto. Aggiungerei: tu sei quello che ricordi. Sono una tua ricchezza, oltre gli affetti che hai alimentato, i pensieri che hai pensato, le azioni che hai compiuto, i ricordi che hai conservato e non hai lasciato cancellare, e di cui tu sei rimasto il solo custode. Che ti sia permesso di vivere sino a che i ricordi non ti abbandonino e tu possa a tua volta abbandonarti a loro”. Ma fece molto di più, il filosofo, in quel tramonto “disperato e finale / che arrugginisce la pianura”: regolò i suoi conti ultimi. Padre della sinistra e padre dell’antifascismo, il conto in sospeso pareggiò: quello di una lettera giovanile a Mussolini, a implorare comprensione e aiuto dalla vociante S. E. di Palazzo Venezia. E con il Foglio, di dubbio accredito democratico, lo fece, e a Pietrangelo Buttafuoco, di ancor minore accredito democratico, la sua confessione – umana, vera: che nulla toglieva all’antifascista, nulla al padre della sinistra – affidò. “Ero, come posso dirlo? Come posso dirlo senza mascherarmi nell’indulgenza con me stesso? Ero immerso nella doppiezza, perché era comodo fare così. Fare il fascista tra i fascisti e l’antifascista con gli antifascisti. Oppure, e lo dico per dare un’interpretazione più benevola, era solo uno sdoppiamento quasi consapevole tra il mondo quotidiano della mia famiglia fascista e il mondo culturale antifascista. Uno sdoppiamento tra il me politico e il me culturale”. E avvenne un fatto curioso – come se la vecchiaia fosse un resistere ai propri fantasmi, anziché spartire il sapere e l’esperienza: che amici di Bobbio dissero che il vecchio professore era finito intrappolato – nel rievocare ciò che si dimentica perché ci si vergogna. Così da non rendere onore – loro: gli amici, i discepoli, gli ammiratori – alla lezione estrema del loro maestro.

Che fu saggio: perché una vecchiaia vergognosa è una vecchiaia artefatta – una maschera infestata dal colera, come quella di Von Aschenbach morente. L’atto finale di un grande vecchio può essere quello estremo, preciso – perché dentro la luce che cala non si perda ciò che si fu. Poche ore prima di morire, vecchissimo, Michelangelo rimise mano alla sua “Pietà Rondanini”: si è accorto che il corpo della Madre e quello del Figlio erano troppo distanti, e gli ultimi colpi di scalpello servirono al suo genio per rinsaldare quel legame. Altrimenti non resta che l’abbandono ai conti non saldati, come accade a Dmitrij Petrovicˇ – che si vede morire fissando un suo antico torto – in un bellissimo racconto di Vasilij Grossman.

Da un arco che è quasi di un secolo, la vecchiaia per fortuna non è più “un privilegio di alberi e pietre” (Wislawa Szymborska) – ma l’uso che se ne fa, nel non semplice più sopravvivere, e il modo di spartirla, non nell’affanno per farla sparire. Il vecchio nostro presidente della Repubblica – che per gli anni è stato pure deriso, e da qualcuno creduto assonnato – nella sua dura reprimenda questo ha mostrato: il volto meno praticato dalla vecchiaia nel fragile contesto di giovanilismo bullesco, inconsistente fanciullismo, copiato e balbettante, altro che rivoluzione. Un giorno un giornalista andò a intervistare l’ormai vecchio, geniale Billy Wilder. Il cronista entrò, il regista era al cesso. “Signor Wilder, sono Derek Malcolm del Guardian. Sono qui per l’intervista!”. Si udì una voce, oltra la porta: “Entri! Entri! Non si preoccupi, riesco benissimo a tenere a bada due stronzi contemporaneamente”. Ecco, un vecchio con una grande vecchiaia molte cose e molti inconcludenti sa tenere insieme a bada. Con apposite parole. Da ogni luogo. 

© - FOGLIO QUOTIDIANO di Stefano Di Michele

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