Confindustria “corporativa” piace meno

Categoria: Firme

al settore servizi. Rep. sulle “contraddizioni” di Squinzi.

Altre fuoriuscite e mugugni interni

“Ridurre le tasse sul lavoro”, poi “una sintonia tra le azioni del governo e quelle di banche e imprese”, quindi la riduzione delle “restrizioni al contratto a termine” e “un grande piano per l’innovazione e la ricerca”. Le parole usate ieri dal nuovo presidente del Consiglio, Enrico Letta, devono essere piaciute a Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria, che per esprimersi attenderà comunque proposte più dettagliate ma che già nei giorni scorsi ha elogiato “celerità” e scelte di “qualità” mostrate del neo incaricato nella scelta dei ministri. Soprattutto, in Viale dell’Astronomia è molto sentita l’esigenza di creare un feeling positivo con l’esecutivo, dopo che i rapporti con il governo Berlusconi, soprattutto nell’ultima fase, e con quello Monti, sono stati tutt’altro che idilliaci. Nel frattempo però, in vista dell’assemblea annuale di maggio dell’associazione degli industriali, Confindustria è in subbuglio. A partire dalla fuoriuscita di Fiat nel 2012, quando presidente era Emma Marcegaglia, le polemiche sullo stato dell’associazionismo padronale non si sono placate. Ieri è stata Repubblica, sulla prima pagina dell’inserto Affari & Finanza, a dare conto dell’“anno nero” di Squinzi. Oltre a sottolineare le “evidenti contraddizioni” dell’attuale gestione (dalla “pomposa agenda di legislatura” pre-elettorale al successivo “patto” poi “scomparso” con i sindacati), Repubblica ha notato come “ormai nelle assemblee confindustriali è sempre più rara la partecipazione dei nostri grandi capitalisti, Diego Della Valle, Leonardo Del Vecchio, i Benetton, i De Benedetti, i Ferrero, i Barilla stessi, i Caltagirone, Renzo Rosso e via dicendo”. La settimana scorsa, sul Foglio, avevamo scritto della fuoriuscita dall’associazione degli industriali – seppure in sordina –  da parte di Finco (la Federazione delle associazioni di categoria che rappresenta il mondo di prodotti, impianti e servizi specializzati per le costruzioni). Trenta associazioni di categoria – per un totale di circa 3.900 imprese e un fatturato di circa 20 miliardi di euro – che accusano Squinzi e soci di “centralismo burocratico”. In più, sempre su Repubblica di ieri, l’industriale Alessandro Rielli diceva che “inseguendo i contributi abbiamo perso la nostra anima industriale”. Parlava di Confindustria come di “un grande agglomerato in cui ci identifichiamo poco e dal quale ci sentiamo poco rappresentati” e infine denunciava la sovrarappresentazione del settore dei servizi nell’associazione.

Tuttavia, secondo la ricostruzione del Foglio, nemmeno il settore dei servizi sprizza soddisfazione per la situazione odierna. L’insofferenza verso la federazione ufficiale Confindustria servizi innovativi e tecnologici (Csit) non è nuova. Tra 2010 e 2012, causa eccessiva eterogeneità di un gruppo che teneva dentro dalle telecomunicazioni agli amministratori di condominio, passando per i pubblicitari, sono uscite le società di Tlc (che hanno dato vita a Confindustria digitale) e poi il settore della consulenza e della comunicazione (Confindustria Intellect). Csit, guidata da Ennio Lucarelli, ha comunque mantenuto immutato il suo peso nel sistema confindustriale, garantendo così – dicono i più maliziosi – il suo apporto di voti all’elezione di Squinzi nel 2012. Confindustria Intellect è rimasta comunque dentro Viale dell’Astronomia, ma senza essere riconosciuta come Federazione e senza voce nella giunta centrale, l’organo più importante del sindacato degli imprenditori. Dice Domenico Masi, presidente di Intellect (1.101 imprese, circa 50.000 addetti che realizzano circa 11 miliardi di euro di ricavi annui): “Oggi in termini di rappresentanza i servizi sono ridicolizzati. Noi non smaniamo per un posto in giunta, ma osserviamo che Confindustria, così come sindacati e ministeri con cui si è sempre rapportata, è diventata largamente clientelare e corporativa. Perché ha bisogno di un suo giornale? Perché ha ancora livelli nazionali e territoriali? Come si concilia la rappresentanza di aziende a partecipazione pubblica e di aziende private rispetto al governo?”. Masi, tra l’altro, è stato bacchettato dai probiviri di Confindustria per aver definito “un baraccone” l’attuale. associazione degli industriali. Beppe Facchetti, presidente di Assorel (Relazioni pubbliche), osserva come Intellect proponga un modello organizzativo alternativo, più “leggero”, concentrato su “lobby e pressione politica”: “Per farlo non occorrono i 500 milioni di euro di costo annuale di Confindustria, bastano i 30-50 milioni delle omologhe inglese e francese. Presto presenteremo con decisione le nostre proposte alla commissione Pesenti sulla riforma interna”. Poi si vedrà se non seguiranno altri casi Marchionne.

di Marco Valerio Lo Prete   –   @marcovaleriolp, 30/4