L'illusione egemonica del Pd lo ha reso subalterno al Pdl

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La crisi del Partito democratico viene descritta da quasi tutti

gli osservatori come effetto dello scollamento tra un vertice che dopo vari tentennamenti ha dovuto arrendersi al principio di realtà e all'autorevolezza di Giorgio Napolitano per dar vita all'unica coalizione di governo possibile, e una base insoddisfatta, riottosa, animata da una sorta di furia distruttrice che la spinge verso una deriva estremistica. Probabilmente fenomeni di questo genere, che sono sicuramente avvertibili in settori della militanza di partito e che hanno trovato larga accoglienza nei media alla ricerca, peraltro comprensibile, di episodi eclatanti di ribellione, non esprimono lo spirito dominante nel più vaso elettorato democratico, dove prevale lo scoramento e la disillusione, non la rabbia iconoclasta. Nei talk show e sui media c'è spazio solo per la protesta per il superamento dei confini verso destra, ma già alle primarie si era vista una robusta critica alla caduta dei confini verso sinistra, rappresentata dall'alleanza con Nichi Vendola, che non convinceva i sostenitori della candidatura di Matteo Renzi.

In realtà il problema politico del Partito democratico sta nella concezione delle alleanze, più che nella scelta dell'alleato, che può essere dettata dalle circostanze e dalla necessità. L'idea centrale del rapporto con le forze esterne confinanti è, per quasi tutte le componenti del partito, di tipo egemonico. Pierluigi Bersani affidava a Vendola un puro ruolo di «copertura a sinistra», che non avrebbe invece potuto incidere sulle scelte di governo, che sarebbero state adottate secondo il criterio di maggioranza, cioè dal solo Pd. Matteo Renzi rifiutava accordi preventivi con i centristi di Pierferdinando Casini e di Mario Monti, nella convinzione che gli elettori di quest'area sarebbero stati attirati direttamente da un Pd guidato da lui. Durante le prime fasi postelettorali, nonostante il colpo subito, il vertice del Pd ha cercato, per giunta attraverso manovre contraddittorie, di riaffermare questa presunzione egemonica, ottenendo un risultato esattamente inverso, la sostanziale subalternità, nobilitata solo dalla figura dell'inquilino del Quirinale. Anche alla base del Pd resiste una sorta di «maggioranza silenziosa» che ha fiducia oramai quasi solo in Napolitano, ed è da questa che può trarre forza la nuova generazione di dirigenti che sembra emergere dopo il suicidio collettivo del vecchio politburo cattocomunista, vittima della propria illusione egemonica, costruita su culture politiche considerate nobili ma non rielaborate con la stessa profondità che ha caratterizzato invece la revisione avviata da Napolitano. di Sergio Soave, Italia Oggi