Sfascio PD, Bersani e D’Alema oggi

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Bersani ha sempre sostenuto, durante il suo preincarico,

fatto di lunghi giorni sospesi nel vuoto e sul vuoto, che il tentativo di fare un governo di minoranza non era una "questione personale", che per lui non cambiava fare "il comandante o il mozzo". Eppure i frammenti di verità che emergono adesso che a Palazzo Chigi c'è Enrico Letta vanno nella direzione contraria a quella indicata dall'ex segretario del Pd.

Fabrizio d'Esposito per il "Fatto quotidiano", 16/5

La conferma più autorevole arriva da Massimo D'Alema. Interpellato dal Fatto su una sua strategia dell'attenzione per Stefano Rodotà nei due funesti giorni del disastro democratico sul Quirinale (giovedì 18 e venerdì 19 aprile), l'ex premier e ultimo leader carismatico dei postcomunisti fa sapere che "qualcosa di vero" c'è. Ma non riguarda il Colle, bensì Palazzo Chigi.

Ecco la ricostruzione della mossa di D'Alema, in cui si ritrovano i tratti tipici della sua abilità politica, impastata con quel metodo togliattiano (realismo e intelligenza) che ha contribuito alle fortune di Giorgio Napolitano, altro ex comunista. Tutto si consuma a ridosso dell'ultima decade di marzo, racchiusa tra due date limite: il preincarico al leader del Pd e la successiva decisione di Napolitano di "riassorbire il mandato" affidato a Bersani e di insediare una commissione di saggi per fare melina e arrivare all'elezione del nuovo capo dello Stato.

D'Alema si muove alla vigilia delle consultazioni del Colle, quando capisce che Bersani non andrà da alcuna parte con i suoi calcoli impossibili sul governo di minoranza, basati su una spaccatura dei grillini e su una manciata di assenze pilotate del centrodestra. Calcoli più da amministratore che da politico, avrebbe detto sempre Togliatti, per il quale gli emiliani non dovevano guidare il "Partito" ma occuparsi solo delle feste dell'Unità.

Il ragionamento dalemiano è lineare: serve un disegno vero per neutralizzare l'ostilità del Quirinale, per cui l'unica via d'uscita sono le larghe intese, e costringere Grillo a scoprire le sue carte. Così D'Alema incontra Bersani riservatamente.

Un colloquio teso tra due compagni-amici che sono ormai vicini alla rottura. Dice l'ex premier: "Caro Pier Luigi secondo me devi valutare anche un'altra possibilità". "Pier Luigi" ascolta, tortura un mozzicone di sigaro tra i denti e intuisce dove "Massimo" vuole arrivare. Prosegue D'Alema: "Fai un passo indietro, vai dal capo dello Stato e proponi il nome di Stefano Rodotà come premier incaricato. Vediamo cosa fanno i grillini".

La risposta di Bersani è no: "Massimo io me la voglio giocare fino in fondo". È qui che si apre la faglia tra la nomenklatura del Pd e il suo segretario e che porta al fallimento totale della "ditta" nel cupio dissolvi di aprile, quando i franchi tiratori bruciano nelle votazioni per il Quirinale prima Marini poi Prodi (che ieri ha peraltro lasciato intendere che non rinnoverà l'iscrizione al Pd). Una fase che i detrattori interni di Bersani indicano come "l'autismo di Pier Luigi", con l'allora segretario rinchiuso sempre più nel suo "tortello magico", al punto da chiudere i canali persino con quasi tutti i suoi fedelissimi, salvo Errani e Migliavacca.

La mossa del riformista e pragmatico D'Alema, che si ritrova sulle posizioni di Civati e della Puppato, farà comunque proseliti nel partito, soprattutto tra i giovani turchi come Andrea Orlando e Matteo Orfini.

Ma sino alla fine non ci sarà nulla da fare. Anche se lo schema di Rodotà premier circolerà ancora, soprattutto nel M5S, durante gli scrutini per il Quirinale. Al Fatto, un'altra fonte vicinissima a D'Alema confida che "Massimo propose Rodotà per il Quirinale nella notte tra giovedì 18 e venerdì 19 aprile, prima che venisse ufficializzata la candidatura di Prodi".

Ma D'Alema, appunto, fornisce una versione diversa. Per lui la convergenza su Rodotà andava a fatta a monte (consultazioni per Palazzo Chigi) e non a valle (elezione del nuovo capo dello Stato). Una strategia, la sua, che rivela il vuoto bersaniano e culmina pure in uno scontro personale tra i due. Accade subito dopo il plebiscito per il Napolitano-bis. Di mattina presto, alle sette, un giornalista di "Piazzapulita", programma di La7, ferma D'Alema per strada, che si lascia scappare: "Tutta questa vicenda è stata gestita male".

Bersani s'infuria e lo fa sapere a "Massimo", che a sua volta scrive un biglietto e lo spedisce al segretario, per chiarirsi. Oggi, all'ex premier resta solo tanta amarezza, compresa quella di non aver fatto il ministro degli Esteri in un governo di larghe intese. Colpa del Pdl: quando Berlusconi ha visto il suo nome e ha proposto Brunetta e Schifani per riequilibrare un eventuale esecutivo di big, lui, D'Alema, si è tirato indietro: "Se andavo agli Esteri era per le mie competenze e la mia esperienza, a prescindere, non perché loro mettevano Brunetta".