CAPI DEBOLI, DEMOCRAZIA INCERTA

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La diffidenza per il leader

Il neosegretario del Pd Guglielmo Epifani è stato eletto da pochi giorni, ma il dibattito interno al suo partito ha in gran parte a che fare con il nome del suo successore. Le cause di questo fatto sono molte, evidentemente, a cominciare da un conflitto tra le varie componenti che la comparsa sulla scena di Matteo Renzi (intersecandosi con il mai sopito confronto tra ex diesse ed ex Margherita) ha solo ulteriormente complicato.

In passato, più volte gli esponenti del Pd hanno sostenuto che la presenza nelle loro file di molti leader, nessuno dei quali veniva a godere di una posizione di netta supremazia rispetto agli altri, era semmai una risorsa; dunque non qualcosa di meno ma qualcosa di più rispetto a un centrodestra dominato da un unico «padrone», Berlusconi.

Ma le cose non stanno evidentemente così, come dimostrano le divisioni che lacerano il partito. Non stanno così anche se teniamo conto di quella tendenza generale delle democrazie contemporanee che il politologo Bernard Manin - in un testo diventato rapidamente un classico della politologia - ha sintetizzato come il passaggio dalla democrazia dei partiti, basata sulle grandi narrazioni ideologiche del Novecento, alla «democrazia del pubblico». Il passaggio cioè a una forma di democrazia che si fonda su partiti leggeri, caratterizzati da una personalizzazione della politica attorno a leader che instaurano un rapporto diretto con i propri elettori. Il peso del leader e delle sue qualità non rappresenta certo un fenomeno inedito. Semmai il fatto nuovo è che il peso della leadership si lega a un rapporto sempre più diretto con gli elettori - reso possibile dai media - e dunque alla marginalizzazione dei partiti tradizionali e delle loro ideologie.

Ma il Pd è l'unico, tra i principali partiti italiani, a non fondarsi su un leader, a non fare della leadership l'elemento strutturante e il punto di forza della propria azione politica. La «democrazia del pubblico» appare anzi alla maggioranza dei suoi esponenti qualcosa di destra, di inevitabilmente berlusconiano, e perciò da respingere. In realtà di per sé essa non è né di destra né di sinistra, tanto che sullo stesso terreno si sono dovuti muovere, benché con risultati anche molto diversi, un po' tutti i partiti della scena politica italiana: da Grillo a Monti.

Sullo stesso terreno sembra capacissimo di misurarsi Matteo Renzi, che però - anche per questo - viene percepito come un corpo estraneo da una parte importante del suo partito, nonostante i sondaggi indichino un centrosinistra guidato da Renzi probabilmente vincente sul centrodestra. Ma il Pd appare intenzionato a muoversi in una direzione opposta: da sempre diffidente nei confronti del rafforzamento della leadership a livello del sistema politico (si tratti del semipresidenzialismo di tipo francese o del rafforzamento dei poteri del premier sul modello inglese), la maggioranza del suo gruppo dirigente sembra voler portare quella diffidenza fin dentro l'organizzazione interna del partito con la proposta di separare la figura di segretario da quella di candidato premier. Come si capisce, dividere la leadership non è il modo migliore per rafforzarla. E non è neppure il modo migliore per superare quei conflitti interni, scoperti o nascosti, che rischiano di dilaniare il Partito democratico al di là della momentanea unità trovata attorno al nome del segretario Epifani.

Giovanni Belardelli, il Corriere della Sera, 18/5